sabato 26 novembre 2011

Confidare nella velocità


Se non fosse pericoloso sarebbe interessante provare a stare immobili tra lo sfrecciare della auto. Sentire quelle masse d’acciaio passarti accanto, cercando di sbirciare dentro ai finestrini. Probabilmente l’adrenalina farebbe vorticare i pensieri e mozzare il respiro, come sospesi su un minuscolo sentiero sopra un crepaccio, pochi centimetri tra la vita e la morte. Ma come nella vita, se gli altri non ti centrano, quello che c’è da fare è mantenere la propria posizione, ed essere consapevoli di come ci si è arrivati. Immedesimarsi nella vita degli altri, che ti sfrecciano attorno, non ha senso e non si può. Possiamo collezionare esempi, desideri, alternative, ma solo per diletto, come sfascia-carrozze ai margini di vecchie statali, come saggi eremiti convocati da chi deve chiedere un consulto o sostituire un pezzo a basso costo. Ora proviamo a camminare sulla linea di mezzeria e immaginiamo di immobilizzare il traffico, facciamo scorrere il tempo in avanti e le auto sono ferme mentre noi sfrecciamo accanto alle loro vite. Il rapporto non cambia, stare immobili tra lo sfrecciare delle auto, per guardare la vita degli altri, non serve.



foto: Fast Lights, 24 novembre 2011

lunedì 14 novembre 2011

Rouge madeleine



Faccio uno sforzo di memoria per cercare di raccontare la storia di uomo, anzi un pezzo della sua storia, perché mi piace pensare che un giorno quell’uomo la possa leggere, trovandola casualmente, e ci si riconosca pur avendo il dubbio di esserne il protagonista. Vi prego di focalizzare un uomo che abbia appena passato i cinquanta anni, sposato ma divorziato da una decina, senza figli e con un lavoro impiegatizio ben pagato ma relativamente ripetitivo. Volutamente ripetitivo, quanto semplice, uno di quei lavori che si lasciano tranquillamente in ufficio la sera, senza il bisogno di portarsi i problemi a casa. Attentamente scelto così per poter dedicare il proprio tempo non lavorativo ad altre faccende più importanti, ad esempio cambiare il mondo. Perché quest’uomo da quando compì i diciotto anni fino ai quaranta sentiva che il senso della propria vita fosse bloccare la deriva che il pianeta stava prendendo: l’ingiustizia causata da un piccolo manipolo di potenti sulla vita di miliardi di persone. Il viscerale odio verso una società basata sulla sofferenza e sull’arricchimento individuale a discapito del prossimo, forte di una morale e di una religione complici dell’annichilimento del pensiero libero e razionale. Questa missione animò la sua vita per anni, rischiando anche nei momenti bui della Repubblica di venir coinvolto in azioni che lo avrebbero schiacciato. Aveva visto i vecchi partigiani piangere, lottare e naturalmente morire, i giovani accedersi e spegnersi, i compagni e le compagne urlare, profetizzare e tradire. Quando divorziò dalla moglie, forse la delusione di quello che visse come un fallimento personale, lo spinse ad isolarsi non in un eremo ma in se stesso. Decise che in fondo era stufo di lottare contro mulini invincibili al fianco di personaggi inaffidabili e umorali. Decise che se la Storia doveva andare in un certo modo lui non poteva farci nulla, che sarebbe restato generoso e democratico, ma non si sarebbe più schierato in prima persona. Tanto la politica la poteva capire anche dai giornali, poteva farsi una sua idea e al limite decidere per chi votare. Poteva leggere i volantini e i programmi dei candidati e scegliere le persone che lo ispiravano, magari non perfette ma che almeno sembravano oneste. Tanto era tutto uno schifo e lui ci aveva già rimesso anche troppo. Al momento si sentiva un paladino della razionalità, del pensiero snello ed individuale, non più al servizio di nessuna ideologia. Anticiperò che questa sua solida posizione di moderno cittadino democratico un giorno si spezzò. Era un luminoso pomeriggio autunnale, un sabato, quando attraversando il centro città si imbatté nella manifestazione di un sindacato. Nulla di nuovo, le solite rivendicazioni, il solito desiderio di giustizia, le solite facce animate di speranza. Solo che poco dietro al corteo principale un piccolo gruppetto di uomini e donne, di diversa età ed etnia, avanzava compatto, al centro un bandiera rossa. Rossa, pura, senza simboli o scritte, soltanto rossa come può esserlo una rosa o il sangue di una ferita. Un piccolo calore gli divampò in petto e un lieve sentimento gli annebbio lo sguardo. Per un attimo si ricordò del desiderio di giustizia, quello che valeva una vita, quello che andava oltre il quotidiano, quell’utopico sogno di uguaglianza. In quel momento sentì che si era allontanato anche se di poco solo da se stesso, da quelli come lui, che forse tradiranno ma che adesso ci sono, e ne verranno altri, perché in tanti scorre quello stesso sangue rosso. Si illuminò capendo che in fondo era importante anche solo per sé sventolare quella bandiera, anche da solo, e tanto solo non sarebbe stato mai. Iniziò a camminare in coda al gruppetto, fissando ipnotizzato quella bandiera rossa, felice e anche se non più protetto da un comodo realismo.



foto: Bandiera rossa, Milano 12 novembre 2011

venerdì 4 novembre 2011

Gli araldi dell’inverno


L’umidità che avvolge i palazzi riempie i vuoti che lo sguardo indagava in estate. Il passo è più veloce e il cuore lo ritma ansioso di arrivare ovunque si debba andare. Il lungo caldo autunno mi aveva fatto dimenticare che l’inverno sarebbe arrivato freddo, umido, malaticcio. Ci hanno pensato gli stormi di piccoli uccelli neri che sincronizzati dall’istinto riempiono l’aria tra i palazzi sfrecciando a pochi metri dalle finestre. Impavidi si lanciano dai tetti scivolando come un tessuto srotolato sulle scale. Il gruppo compatto volteggia come un sol corpo, tranne alcuni solitari che si restano distanti o fermi appollaiati e indifferenti. Si tengono lontani dalle danze, come gli anziani ai bordi delle piste da ballo, un po’ curiosi, un po’ invidiosi, un po’ certi che tanto è tutta fatica inutile. Le persone sciamano uguali nei cunicoli della metropolitana, soltanto un po’ più colorati ma molto più scoordinati e irritabili. Ognuno immerso nell’illusione di percorrere una via unica e individuale, ma che li porterà tutti davanti ad un solitario televisore. Tra un ponte e una festa anche l’inverno passerà, il "gesùbambino" dei centri commerciali già avvita le lampadine colorate: basterà aspettare il Festival di San Remo e sarà di nuovo primavera.


foto: gli araldi dell’inverno - Milano 3 novembre 2011

sabato 22 ottobre 2011

Folli, matti e dementi


Ho visto un brillare negli occhi che sembrava venire da un gioia lontana, quotidiana e infinita. Ho sentito il sapore erotico dell’ossessione, dell’esibizionismo del proprio esistere. Ho ascoltato le parole del guardiano della memoria, tutore e custode di “un’emozione che dura solo un paio d’ore”, e la caparbia convinzione di raccontarla, forse per ungere il futuro d’invidia e curiosità. C’era una voce contenta che parlava di un tunnel che collegava due mondi: un celebrato nuovo teatro, un vecchio teatro nato da un sepolcro fascista nato in un cinema. Nel tunnel c’era il mondo allo specchio, fatto di corde e cavi e elettrici, stoffe e tanto legno. Poi tutti questi uomini e queste donne che vagavano come vestali del tempio, in attesa dell’antica cerimonia, sempre la “prima”. Questi sembrano un nugolo di anonimi, che poi sono l’ossatura di questo mondo, come i dimenticati muratori delle cattedrali gotiche. La nebbia che bagna le barbe ci ha avvolti e protetti, e come un fantasma di Dickens ci ha fatto vedere il passato, il presente e un po’ di incerto futuro. Nel palco c’erano i matti e i dementi. I matti sono quelli dei manicomi, i dementi sono quelli fuori. C’era il dolore del dentro e del fuori; c’era la leggerezza che diventa sciocca quando cade nel momento sbagliato. Al centro c’era un piccolo uomo sordo, muto, analfabeta, amante delle bandiere, e per il solo fatto che ci fosse: tutto il dentro e tutto il fuori del teatro si sono mischiati.


Foto: la sartoria del Piccolo Teatro di Milano, 21 ottobre 2011

sabato 24 settembre 2011

Uno di uno di due

Da piccolo mi mandavano a giocare in compagnia con i miei compagni di scuola o con gli amichetti del quartiere. Io preferivo giocare da solo, nel salone, in un mondo inventato da me tutto fatto di immaginazione. La cosa che odiavo di più era vedere i bambini in cortile e dover scendere per unirmi a loro, mi sentivo un intruso; come se volessi imporre la mia, credevo, non voluta presenza. Poi con gli anni ho capito che era una cosa normale ma era troppo tardi. Da adolescente c’erano le compagnie, a me non piacevano perché erano degli universi chiusi in cui le parole, i gesti i racconti erano sempre nel circolo della compagnia, delle stesse persone. Preferivo gli amici a piccoli gruppi. Da adulto le relazioni si stabilizzano principalmente a coppie oppure a gruppi di coppie, questo a volte mi ricorda quando ero bambino e mi sento fuori posto. Ovviamente non parlo del “giocare da solo”, sarebbe un facile umorismo e Woody Allen ha già esaurito l’argomento. Però la singolarità oggi non è solitudine ma è identità, nel viaggio, nelle attività, nel pensiero. Mi è rimasta solo quella sensazione di essere invadente anche solo con la mia presenza, a volte anche presso le persone più care. Sensazione che forse appare come distacco o freddezza, e non quella goffa autolimitazione che dovrebbe essere. La grande stranezza è che mi piace essere coppia, mi piacciono proprio le condivisioni e le sincronie, le vicinanze e le telepatie. Ma questa è magia e prima di essere una metà devo essere un intero su cui l’altra metà si può appoggiare.



Foto: a couple of, settembre 2011, Carroponte

domenica 4 settembre 2011

Fiori d’acqua sbocciati sul ferro


Ed eccola la prima vera pioggia di fine estate, definitiva come un “a capo”. Ma nulla cambia, il ciclo persiste. Così dopo un sabato passato sonnecchiando e una notte insonne avvelenata da malinconici pensieri cerco di rubare ad una domenica di pioggia un po’ di vita. Gratto due parole dai pochi amici incontrati per strada, frugo nei giornali e nella rete qualche idea che mi permetta di dissetare l’animale. Scaccio il rumore della pioggia con il rumore dell’otturatore, e magicamente scaccia anche i pensieri. Respiriamo in sincronia, prima io, poi lui. E ci credo che dentro quell’immagine si fermi un momento, adesso anche il video manda odore di pioggia. Così sono contento.



foto: rain flower (4), progetto pioggia, settembre 2011

martedì 23 agosto 2011

Venezia e il tempo


Non è stato facile superare la prima impressione ma poi ho capito perché Venezia mi imprigiona. Non tanto per i vicoli incantevoli, spesso deserti, tra antichi palazzi e luci timide. Non tanto per i canali che tagliano il passo come venti improvvisi. Non certo per il turismo. Nemmeno per il mare vicino o per il clima. Venezia ha due dimensioni: la prima è quella di città da visitare, da consumare, da raccontare condendo di dettagli romantici e buffi aneddoti sulle gondole, la seconda è più intima e si chiude in una mano. Se ti fermi un po’ di più e lasci che si racconti, alla fine si arrotolerà come un gatto e potrai prenderla nel palmo di una mano. Potrai camminarla, non senza fatica, ma con gusto e le strette vie diventeranno domestiche. Le osterie saranno rifugi ospitali e i canali non ti taglieranno più la strada. Ciò che a Venezia non c’è è il tempo, che si è dovuto fermare, non per incantarla in un passato remoto, ma in un eterno presente di resistenza. E’ il suo carattere e non permette a nessuno di scorrerla veloce e distratta, né in bicicletta né in automobile. Chi vuole consumarla in un giorno viene relegato ai margini dove si incanterà a gustare dal vivo il già visto e se ne andrà con il dubbio di essersi perso qualche cosa. Gli incantati , come me, si struggeranno per sempre nel desiderio di raccontarla e paura di essere banali, ma non potranno resistere. Forse Venezia non vuole ospitarti, vorrebbe adottarti per sempre.



foto: Vik Muniz, Untitled, Biennale di Venezia Esposizione Internazionale d'Arte 2011. Qui le altre su Venezia e la Biennale.

giovedì 11 agosto 2011

La legge dell'Universo


Io ci credo fermamente che esista una legge della natura che spieghi tutto e me la immagino come un concetto facile quasi ovvio. Deve esistere una legge che sappia descrivere il tutto, l’energia, l’interazione delle particelle, delle masse e dei pensieri. Secondo me è proprio sotto i nostri occhi ma non la riconosciamo. Ogni mattina c’è un uomo alla fermata della metropolitana che resta fermo in piedi nel corridoio con le mani protese e ripete un mantra costante “un pezzo di pane”. Pochissime variazioni, se non nel tono e nel ritmo, ma sempre la stessa frase in modo quasi alienato. Nelle mani non ha nulla, resta così immobile e parlante. Chissà se le variazioni di quella voce dipendono solo da cause interne, come l’umore o la stanchezza, vicine come il clima o il numero di viaggiatori, oppure anche lontanissime come l’indice della borsa di Hong Kong o l’ora di apertura di un piccolo bar di Caracas il giorno della festa del patrono? E se quell’uomo fosse il centro dell’universo? Se la sua voce fosse l’impulso che guida l’espansione dell’Universo? Potrebbe essere in questo posto da sempre, dall’alba della Terra, ma nessuno lo ha mai notato: messo in campo visivo periferico come un qualunque mendicante. Cosa succederebbe se tutto partisse da lui? Se lui fosse la sorgente della creazione e dell’esistere? Ma anche se così fosse, che la sua voce spinge l’Universo, finché c’è un uomo che mendica, l’Universo potrà anche espandersi ma non andrà da nessuna parte.



foto: Emilio Isgrò, Libro cancellato / The erased book, 1964, Museo del '900, Milano

lunedì 8 agosto 2011

Le stelle cadenti non lasciano cicatrici


In fondo siamo tutti sotto lo stesso cielo e guardandolo, possiamo immaginare, di comunicare come attraverso una rete che non richieda interfacce. Non bisogna guardare troppo lontano ma solo dove le nuvole attirano lo sguardo. E’ il nostro tetto domestico e siamo tutti figli di un padre impietoso che non ci concede consolazione, non ci lascia tregua. Non ci porge una mano carezzevole con dentro una felicità che si possa costruire e coltivare, ma affonda anche quelli che lo venerano nel nostro stesso nulla, a volte in dolori che non si riescono a raccontare. Tutti uguali nel presente ma distinti da un futuro personale ipotetico. Amleto temeva i sogni eterni più del suo presente, Ofelia temette di più il presente. Mi piace immaginare che i pensieri rivolti al cielo impattino contro la volta e rimanendo attaccati scivolino lungo di essa fino ad una mente in ascolto da qualche parte del globo. Come un radioamatore annoiato che giocherelli con le frequenze. Forse dovrei chieder prima scusa ai riceventi: come sempre mi sembra che ogni cosa pensata e poi detta diventi banale; scritta non vale più di un party con personaggi di cartone. Oppure mi piace insultare la Luna che tante ne ha viste, e da testimone muta si è limitata a passeggiare tra i pensieri in scorrimento senza donare un solo istante della propria maturità. Altro che missile in un occhio! Arriveranno gli americano, o i cinesi, a scavarti come una miniera galleggiante e ci ricorderemo di te solo come un cantiere dimenticato, con i vecchietti in tuta spaziale a commentare i lavori. Venerdì sera ho scoperto che in autunno uscirà l’I-phone nuovo e sarà “una figata”, mi è dispiaciuto non saper vomitare a comando.



foto: finto cielo su vero Fontana riflesso nel Museo del '900.

lunedì 1 agosto 2011

Rapporto


Non conosco la data astrale, conosco appena quella attuale e locale, spero basti. Vorrei presentare rapporto spontaneo sull’andamento della missione. Punto primo: ho capito che si tratta di una missione, altrimenti non potrebbe essere. Da quando sono stato mandato qui ho imparato molte cose e sono pronto a riferirle. Le ho immagazzinate tutte nel mio cervello, potete prelevarle quando volete. Per favore poi rimettete tutto a posto, magari a com’era prima della missione. E riportatemi a casa. Le informazioni che troverete sono divise in due parti, la prima è di tipo esperienziale e la seconda sono conclusioni logiche che cercano di dare un senso alle esperienze. Credo di aver capito diverse cose che ci permetteranno di abbattere l’ipotesi che gli abitanti del pianeta agiscano secondo leggi caotiche. In realtà il loro pensiero e la loro azione sembrano essere guidati da leggi molto semplici, poco più che istintive, generalmente basate sul massimo profitto immediato. Questa propensione è facilmente leggibile quando le scelte molteplici sono esplicite, altre volte è più occulta. Le decisioni anche se meditate vengono concluse dal fattore tempo, come se ogni essere umano non potesse attendere per sempre un evento ma debba ad un certo punto risolverlo con una scelta immediata, illogicamente improvvisa. Apparentemente sembrano non ricordarsi delle scelte precedenti, e anche se poco efficaci o dannose, le reiterino con convinzione. Ciò non è dovuto ad un limite fisico ma ad una sorta di speranza. Ciò che rende efficace la persistenza di queste entità è la capacità di adattamento, anche morale, una sorta di accettazione del massimo profitto immediato nonostante tutto. Credo che questo possa esserci utile per le valutazioni successive: si tratta di una condizione non rimediabile. Punto secondo: credo che la mia missione sia finita. Non ho ricevuto alcuna istruzione, ma presumo che mi veniate a prendere. Presumo, o come si dice localmente, spero. Passo e attendo.


foto: We are ready - Luglio 2011

martedì 28 giugno 2011

C'è un cartello che protegge le aiuole dai cani che sanno leggere


Vorrei un caleidoscopio che mischiasse le parole, che confondesse i sensi e da ogni sillaba potesse estrarre un universo. Vorrei che centrifugasse la semantica per estrarne quel liquido che solo alcuni poeti hanno assaggiato. Di tutte le parole che cadrebbero dal vortice a Terra, prenderei una sola sillaba e come uno studioso medioevale la userei come chiave per aprire il mondo. Se un poeta può essere rapito dal cartello appeso in un cesso, io voglio impazzire per cercare il senso di una parola sola. Ma non esiste un codice che descrive la realtà, nemmeno un gene, nemmeno un meme, nemmeno uno scosciare di caratteri verdi luminescenti su sfondo nero. Da qualche parte c’è un eremita, vestito di un cappotto comprato a rate, che bergonzona un modo di dire e lo usa come linguaggio universale. In una stanza arida di originalità c’è un genio che cerca una rima con una parola deformata dall’uso comune, e quando la troverà potrà rivelarla solo alla banchina deserta della metropolitana. C’è una donna che sta per partorire e intanto pensa ad un algoritmo che metta senso alle parole scritte in tutto il mondo, e si sente le doglie, ma non sono per il nascituro umano. Eppure sembra che nel pianeta riecheggi una lingua comune, come prima di Babele, come i versi incomprensibili degli apostoli, qualche cosa che è nell’umanità stessa. Se smettessimo di volerci far capire forse ci capiremmo. Ma non tu, tu parla, dannazione parla!



foto: Camminando su una poesia di Pessoa, opera di azt "Grandes sao os desertos, e tudo é deserto", Milano 2011

giovedì 23 giugno 2011

Ruvido, secco, tagliente


E’ una dinamica che odio, che devo scrivere per provare a levarmela di dosso. E’ come un pezzo di ritornello che ti si ficca in testa e continua picchiare, che cerca di attirare la tua attenzione, di portarti ad un ricordo, ad un momento particolare, ma tu ti opponi. Succede allora che ti svegli una mattina, sereno, con ancora un residuo di sogno tra gli occhi, che lavi via sotto la doccia. E nel lento avvio del mattino la tua mente segue pensieri simili a desideri, li dispone in ordine su un filo logico e li mastica, inghiottendoli con il caffè. Sono praticamente sogni, ma costruiti dalla volontà la stessa volontà che ad un certo punto ti tradisce. Va tutto bene, poi la storia prende una piega improvvisa, si arrotola, si ribalta e brucia. Fa male, proprio come un’ustione. E l’odore di bruciato ti si attacca addosso e ti avvelena il giorno, una fantasia diventa una cataratta che cambia anche il colore della luce. Puoi sputare rabbia quanto vuoi, arrabbiarti per un parcheggio, maledire la metropolitana, odiare l’ascensore, calpestare la posta elettronica, ma ogni violenza non ti ti distrarrà da quel finale impresso nella testa. Di peggio c’è solo sezionare razionalmente il fallimento del desiderio che ha creato la storia e sapere che è vero, inevitabile, sentirlo come una minaccia estesa quanto il cielo a cui non puoi sfuggire.


foto: Nails, Gunther Uecker "Struttura tattile rotante", Roma 2011

mercoledì 15 giugno 2011

Lasciati sfiorare


Fermati un attimo, solo un attimo, tanto sai che non posso trattenerti. Mi sfuggirai anche questa volta e ciò che adesso è presente, domani sarà vago, mischiato e sporcato dalle mie fantasie. Ti ho aspettata molto, perché molto ci hai messo a mostrarti. Prima il Sole, poi i palazzi, sempre la tua fuggevolezza. Non ricordo di averti mai vista così vicina, così prossima ad essere afferrata. Lo so lo dico sempre, ma sembra sempre un momento nuovo. La tua passeggiata questa sera sarà breve, una corta parabola per poi sparire dagli occhi. Ti immagino ridere, ti sei fermata vicino al lampione per prendermi in giro, per non farti “immortalare”, tu che sei eterna. Scusa, no, per il lampione non alludevo a nessun doppio senso. Non so se me lo chiederai, però ti rispondo ugualmente, "sì il vestito rosso ti sta d’incanto".



foto: eclissi di Luna, 15 giugno 2011

mercoledì 8 giugno 2011

Forse nel paese dei sogni, forse nemmeno in quello


Sarebbe bello se esistesse una macchina che trasformasse un pezzo di metallo in calore senza usare altra energia se non gli atomi del metallo stesso, e se con questa energia si potesse produrre vapore per far girare una turbina che generasse elettricità a basso costo. Se ci fosse dovrebbe essere facilmente controllabile, magari non dovrebbe esplodere spargendo nocive radiazioni che possano persistere per secoli. Se esistesse gli scarti del suo processo non dovrebbe essere né nocivi né inquinanti. Ma se così non fosse sarebbe meglio non usarla. Primo perché è una macchina, e le macchine si rompono, secondo perché è affidata alle cure degli uomini, che a volte hanno come primo pensiero il proprio utile o magari la riduzione dei costi. Io di questi uomini non mi fido. Se esistesse una tale macchina di sicuro non sarebbe una delle attuali o prossime centrali nucleari. Ma se anche fossero un poco più sicure non mi fiderei di questi signori che poi devono commissionarle, che hanno amici avidi che gestiscono già male quello che hanno, che vogliono fare ponti dove non servono e godono se ci si sono i terremoti. Per me è come se il Referendum mi chiedesse: vuoi mandare a quel paese questi signori? La risposta è sì. Per esserne sicuro che la capiscano gliela ripeto quattro volte.


foto: antinucleare, Aprile 2011

martedì 31 maggio 2011

Qualche cosa è cambiato


Un respiro profondo liberatorio e tanti abbracci stretti. In ogni caso qualche cosa è cambiato, c’è un’emozione e un desiderio profondo di viverla che da tempo mancava. Non mi piace chiamarla speranza, perché suona come una vaga illusione, invece sappiamo esattamente di cosa stiamo parlando. Sorridiamo alla primavera che ci sorride.


foto:
Milano 30 Maggio 2011, vittoria al ballottaggio di Giuliano Pisapia alla carica di Sindaco a Milano

sabato 28 maggio 2011

Il posto in cui stare


Fortunati quelli che vivono o lavorano vicino al mare, ma proprio vicino, tanto da poter portargli un saluto tutti i giorni. Ogni giorno deve essere uno spettacolo diverso, con una storia eterna e un finale da scrivere. Fortunati anche quelli che hanno un grande lago, magari con le montagne in fondo, per far riposare gli occhi, come se le pupille potessero volare fin là. Io mi accontento di rubare le storie della vita degli altri. Resterei per ore a guardarvi, da una vetrina, in una via laterale del centro, con la macchina fotografica accucciata al mio fianco. Mi piacete molto. Adoro immaginare le vostre vite, tessere le vostre storie e illudermi di capirvi.


foto: Cuoco in pausa, Milano, 28 maggio 2011

lunedì 23 maggio 2011

La paura senza minaccia


Ma quando il traguardo è vicino, o anche solo possibile, voi non sentite una specie di paura? Come se la Vita avesse come regola il dovervi fare uno sgambetto proprio sul più bello, come in un "gioco dell'oca" truccato.


foto: Il mostro tremendo del centro città from Flickr

mercoledì 18 maggio 2011

Una rondine in gabbia non fa primavera


Si insinua vicino all’orecchio destro, proprio sotto al lobo nel punto dove è bello ricevere un bacio, un malsano pensiero che sa di rabbia. Una pungente voglia di girarsi di scatto, chiudendo gli occhi e aprendo le mani, far cadere tutto. Per poi ficcare le mani in tasca e camminare soli per un proprio marciapiede. Ad un certo punto si può dire basta, dopo averci provato per anni, si può dire fottetevi. Se vi piace tutto ciò che io detesto, godetevelo da soli. Fatevi avanti rapaci se preferite il presente ad un futuro, che nessuno può garantire migliore, ma almeno alternativo a tutto questo. Prendetevi pure tutti i posti al sole, sdraiatevi ammassati ai palloni e alle borse frigo, storditevi di suonerie, io vado al bar a mettere in ordine di colore gli ombrellini dei cocktail, vado a vedere come fanno le conchiglie a farsi accompagnare dal mare sulla spiaggia. Però non mi parlate più di cose che si dovrebbero fare, di doveri e di morale a tempi alterni. Non voglio conoscere né le storie dei martiri né quelle degli eroi, di quelli che sono morti per una cosa che non ho fatto in tempo a capire perché l’avete rovinata prima che si potesse completare. Le ondate di depressione e di entusiasmo cavalcate dai giornalisti e dalle persone che parlano in metropolitana non mi divertono. Non sento il vento, ma una brezza leggera istantanea come uno starnuto. Come un mazzo di fiori regalato da un adultero alla moglie. Preferisco ascoltare quel suono lontano che non riesco a riconoscere e che non mi lascia dormire.


foto: Ricordati di girare la pellicola, flickr

venerdì 13 maggio 2011

Il meglio del meglio


Le decisione venne presa con la leggerezza con cui si fanno le azioni evidentemente giuste. Quali queste siano non chiedetelo a me, ma a chi riesce a sorvolare sulla rovina che campeggia sotto il sole sui marciapiedi. Presa la decisione l’atto scaturì a piccoli passi ma con azione costante. Si circondò di cose belle, liberò il tempo dalle cose noiose o spiacevoli e lo riempì di gusto. Non disse più né sì né no, ma si mosse veloce perché nessuno potesse intercettarlo e fermare il suo piano. Per prima cosa annullo il pensiero: passare dal bello, al giusto, al gustoso, al profumato, all’intelligente, al prezioso non necessità di lunghe riflessioni. Poi annullò il riscontro, invertendo il Big Bang, contraendo tutto l’universo ad una piccola palla grande come la propria lingua, per poterlo contenere dentro di sé; lo fece perché tutto ciò che non fosse sé stesso non desse fastidio. Alla fine venne un pomeriggio di domenica, perché la domenica è la traditrice dei cercatori, quando si fermo al centro di un suo salotto, guardò la grande finestra di fronte e crollò. Immaginatevi un Poldi Pezzoli del nuovo secolo, più rapace e più sofisticato, più affamato e più metodico; illuminato dal sole di Maggio in faccia, immaginatelo colto da un conato di vomito, di rabbia, come se tutto il brutto, il vuoto, il marcio che aveva rigettato si presentasse improvviso in un istante solo, nella gola vicino alla lingua. Così dovette crollare, a terra nel centro esatto della propria collezione, per non aver raccolto l’unica cosa che valesse la pena di possedere. Purtroppo non lasciò detto cosa.


foto: Drive me out from all these words, flickr

giovedì 5 maggio 2011

Ufficio desideri inutilmente espressi


Tutti te lo dicono che devi inseguire i tuoi sogni, che non devi “lasciarli andare”. Ma andare dove? Chi ha smesso di seguirli? Ma la mia domanda principale è come si seguono i sogni? Ce ne sono alcuni che sono facili, richiedono uno sforzo quasi normale, non più che andare a lavorare tutti i giorni. Altri sono più difficili perché ti chiedono di rompere una situazione di comodità per andare a fare altro. Altri sono quasi impossibili perché dipendono da condizioni particolari, per non parlare di quelli che riescono solo con la collaborazione dagli altri. Seneca scrisse che si può chiedere agli dei solo ciò per cui si ha coraggio di chiedere ad alta voce nel tempio. Ho visto in giro certa gente che avrebbe la faccia tosta di chiedere qualsiasi cosa, ma in fondo Seneca si riferiva a Lucilio che era persona sensibile e non certo un approfittatore di dogmi. Alla fine certi desideri si realizzano, a volte per pura coincidenza, a volte perché inconsciamente abbiamo preso la strada giusta. Mi piacerebbe per una volta, con una mossa “da cavallo”, sorprendermi e realizzare un mio desiderio che dipendesse interamente da me. Sia chiaro, se qualcuno ha un desiderio che lo renda felice e che io posso realizzare, basta chiedere. Non c’è poi molto da scandalizzarsi: tanto anche se siamo in tanti, su questo granello rotolante, le storie sono sempre le stesse.


Foto: Cara Vecchia (molto) Europa - Mappamondo

martedì 3 maggio 2011

Non te lo leggo negli occhi, tu non lo leggi nei miei


Sono i dettagli a staccare l’immagine principale dallo sfondo. Nemmeno un angolo bianco, appena tinteggiato, è completamente bianco e da quando il bianco ha perso la simbologia della purezza, in Europa, altro non è che un colore netto. Siamo mappe della nostra storia, ma i segni con cui siamo scritti sono legati a lingue segrete. E’ facile leggere una battaglia in una cicatrice, ma pochi possono leggerci una gioia. Nessuno può interpretare i piccoli gesti del comportamento, che se fossero parlanti, racconterebbero avvenimenti incredibili. Allora schiacciamo tutto, a bianco, a nero, a felice,a triste, a sano, a malato. De-saturiamo i colori per semplificarne la lettura, come i fisici che si inventano di togliere l’aria dagli esperimenti per far riuscire i calcoli. Se ogni segnale avesse un suono impazziremmo di rumore, se avesse un odore vivremmo con il naso tappato. Raccontiamo i nostri desideri con le scritte sulle magliette oppure annulliamo il messaggio facendo l’eco a quello di altri. Stampiamo LV ovunque, cancelliamo le altre lettere dell’alfabeto, non diciamo più nulla, stiriamo le pieghe, copriamo gli occhi e mettiamo in fila. Poi a casa studiamo le soap come testi sacri, invidiando quelle passioni da montagne russe, da sentimenti tutti esterni e nessun desiderio inespresso. Chissà se in Africa il bianco è ancora il colore del lutto?


Foto: M. Cattelan, LOVE, Milano P.zza Affari

mercoledì 27 aprile 2011

Sono io, sono te


Non poteva essere se non così, con le parole di Arrigoni diventate bandiera per molti. Una bandiera netta, non interpretabile, non dipendente dai giudizi delle mode e della storia. Una richiesta semplice, e come tutte le cose semplici, tra le più difficili da realizzare. Vittorio ci chiedeva di fare quel passo che supera la nebbia e che ti fa vedere nella figura che hai di fronte, non una generica sagoma, non un’informe essere ostile, ma un tuo simile, umano: te stesso. Restiamo umani nelle passioni, nelle ambizioni, nel desiderio di felicità, senza chiudere gli occhi. Quando riesci a vedere te stesso negli altri non puoi fare la guerra, nemmeno quella che esporta la democrazia, nemmeno quella santa, nemmeno quella giusta. Anzi di queste definizioni puoi solo inorridire, perché ti vedrai tra le vittime. Quando riesci a vedere te stesso negli altri non puoi pensare di sfruttare le loro condizioni di miseria, la loro ignoranza, il loro dolore, nemmeno la loro terra. Se ti vedi negli altri sei umano, altrimenti no. Eppure è la cosa più difficile, perché prima di Vittorio lo hanno detto i filosofi, i profeti, gli emissari divini, i musicisti e le star della televisione, eppure non riusciamo a vedere che il nostro nemico siamo noi “anche se con la divisa di un altro colore”.


foto: dal 25 aprile 2011 a Milano (set completo)

domenica 24 aprile 2011

Attraverso lo specchio


Facciamo finta, almeno per una volta, che la risposta ci sia e sia vicina. Ma forse è ancora troppo poco. Facciamo finta, solo per oggi, che la risposta io la veda e, soprattutto, la capisca. Lasciami immaginare che ci sia in un armadio, tra le vecchie valigie, una scatola con dentro ciò che cercavo. Succede che aprendo l’armadio le due ante munite di specchio rimbalza la mia immagine migliaia di volte finché la luce non si disperde completamente; ed è li che mi distraggo perché la mia mente si dimentica della scatola e va a cercare ciò che c’è negli specchi. Solo che nello specchio non c’è né Alice né Carroll , non c’è un mondo inventato ma solo la continua ripetizione della mia immagine. Mi tolgo dalla linea visiva e gli specchi rimbalzano se stessi. Se mi allontano ancora un po’ capisco che forse c’era la risposta ma io guardavo il rimbalzare della domanda. La luce ad ogni rimbalzo perde un poco di energia e alla fine non riesce più a raggiungere né lo specchio di fronte né i nostri occhi, così in fondo ci appare il buio, come se ci fosse una fine nell’infinito. Sicuramente è una metafora, ma non ho aperto la scatola quindi non so di cosa.


foto: Attraverso lo specchio, 23 aprile 2011, Flickr

lunedì 11 aprile 2011

Marrakech


Tutto quello che si dice su Marrakech è vero. Almeno tutto ciò che riguarda il caos, i souq, la piazza e il clima. Questa città nata da un accampamento ha mantenuto un forte sapore di deserto, forse per le strade polverose, forse per la facciate rosa delle case, forse per quel senso di disordine e precarietà. Però se si vuole fare un’esperienza degna dei migliori diari di viaggio si deve entrare in Medina, perdersi nei souq e cercare di ritrovare la strada per casa. I venditori non sono invadenti, lo sono un po’ i ragazzi che si improvvisano guide, tenaci nel chiedere una mancia ma mai aggressivi. Attraversando i souq da nord a sud arriverete alla piazza. Basta questo nome: la piazza, the square, la plaza. Perché tutto succede qui, tutti vengono qui, tutti sono qui, tutte le sere tutta la sera. Si potrebbe stare per ore a guardare la folla muoversi nella piazza, tra le bancarelle e i fumi delle braci, tra i narratori di storie e di prediche, i serpenti, le scimmie e le altre attrazioni. Come quando si guarda il mare: benché sia sempre lo stesso non è mai uguale. La religiosità esposta e pervasiva, la forza della parola sono evidenti in questa città e in questa cultura. Gli abitanti ascoltano incantati i predicatori e i narratori di storie, tutti spremono il massimo che possono dalle parole di tutte le lingue che conoscono. E’ una città che non mi assomiglia, forse è la più lontana da me tra quelle che ho visitato, ma potrebbe intrappolarmi se le lasciassi il tempo di convincermi che tutta quella confusione non fa male ma è il risultato di tanta storia e tanta umanità che cerca di vivere assieme nel migliore modo possibile. Sì forse potrei lasciarmi incatenare in un giardino al profumo di tè alla menta.


foto: La narratrice, Marrakech, 8 Aprile 2011. Le altre sono qui.

domenica 3 aprile 2011

Una Primavera per salvarsi


Facciamo il punto prima che arrivi la Primavera, prima che si presenti con tutte le sue pretese e io non sia pronto nemmeno per negarmi. Oppure facciamo il contrario: mi dimentico di tutto così quando arriverà la primavera potrà cogliermi di sorpresa senza che io possa nascondermi dietro una scusa qualsiasi. Tolti gli impegni lavorativi, che per benedizione in questo periodo se ne stanno confinati nel loro recinto orario, mi trovo a dover affrontare la parte più critica del “progetto casa”, ovvero la scelta dei rivestimenti e dei primi mobili. Di per sé è un’avventura affascinante, intrigante e finalmente concreta visto che fino ad oggi ho considerato il design come qualche cosa che qualcuno faceva e qualcun altro si comprava e si godeva. Il mio rapporto col design è in realtà un discorso noioso che pochi tollerano. Quindi tutto sarebbe stupendo se non si dovesse alla fine pagare, il che rende paradossale tutto il lavoro di ricerca fatto. Per non parlare del fatto che molte decisioni devono essere prese in maniera definitiva e se vengono sbagliate il loro effetto mi perseguiterà per molti anni a venire. Ma la decisione non mi spaventa, fino ad oggi sono e resto convinto delle mie scelte. Però capisco se mai qualcuno, nella storia, si è sposato o fidanzato solo per poter delegare all’altra (o altro) certe scelte. Forse condividerle le alleggerisce? O forse no? In fondo la mia casa è un mio spazio mentale, è la costruzione di una cosa mia, oggi se dovessi pensare a una cosa “nostra” sarebbe tutto differente. Al massimo potrei clonarmi nel sesso opposto. Ma l’accoppiamento di due identici non porta all’annullamento? In ogni caso la mia testa è chiusa in un vincolo gravitante tra sogno e mutuo, tra adesso e domani. Meno male che ci sono gli amici a strapparti dal circolo autistico del proprio pensiero e quella che mi sembrava una bizzarra fuga di tre giorni a Marrakech oggi mi richiama come una salvezza: una porta verso l’aria aperta. Potrei dire un balzo nella primavera, quella delle stagioni e quella della storia del Nord Africa. Sbrigati primavera e fai quello che devi fare.



foto:Montagna di sale di Mimmo Palladino, Milano davanti a Palazzo Reale. Altre qui.

lunedì 21 marzo 2011

Free hugs, on request


Mi piacciono gli abbracci, mi piace farli, mi piace riceverli, mi piace guardarli. Mi piacciono anche se non li faccio mai. L’abbraccio è una cosa difficile, non è il gesto banale da telefilm americano. Si aprono le braccia aumentando il proprio volume apparente, si abbassa una difesa e si offre il petto. Quando i corpi si avvicinano non possono più dirsi estranei, si mischiano le temperature e si possono sentire gli odori. Io abbraccerei in continuazione, anche se non lo faccio mai. Domenica Gionni mi ha salutato accogliendomi con un abbraccio ed è stato bello salutarlo così. Se fosse dipeso dalla mia iniziativa non ci saremmo abbracciati, io non so leggere gli equilibri. Il mio timore di violare lo spazio altrui mi bloccherebbe e dopo tanti anni non so ancora quando si può abbracciare e quando no. Un abbraccio rifiutato o accolto malamente mi allontana per sempre, come un’ustione. Mi serve un codice esplicito, un concordato di vicinanza. Però a volte sì, ma solo quando sono sicuro, quando so che non da fastidio, quando non sembra banale, quando non è prendere ma è dare. Potrei mettere un cartello di istruzioni: Attenzione contatto fisico a crescita esponenziale inversamente alla distanza superata. Una volta nella presa di un abbraccio ho perso tanto, troppo, quella volta l’ustione venne dal vuoto.



foto: Abbraccio al Politecnico, 20 Marzo 2011.

sabato 12 marzo 2011

Ultima birra in Tribù


Mi ricordo che ero con Paolo, che faceva freddo e che c’era un po’ di nebbia. Con qualche difficoltà la trovammo in quel cortile anonimo dietro un piccolo market. La prima persona che mi rivolse la parola fu Claudia che mi chiese “come ci avete trovato?”, io innocentemente gli dissi “ci sono volantini appesi ovunque”, “ah, qualcuno allora li guarda!” concluse. Pensavo fosse un’espressione ironica, ma divenne il leitmotiv per 16 anni. Sono passati 16 anni e in questi giorni chiuderà. Era nata come associazione giovanile, divenne di tutto, tra cui C.S.A. (centro sociale affittato). L’unico suo obiettivo era rigenerarsi, cercando sempre forze nuove, dando risorse a chi aveva idee, cercando di rompere il dualismo “io e la mia tv”. Ci passai 10 anni, quando ancora non c’era il bagno, forse i 10 anni più intensi della mia vita. Io che non ho mai frequentato le compagnie in quel posto trovai una tribù di gente come me, eppure molto diversa da me. Non so elencare le cose che ho imparato, di sicuro la forza del gruppo e il limite del gruppo. Se penso a tutte le persone incontrate, alle parole spese, alle idee buttate e quelle realizzate: mi vengono le vertigini e mi sento vecchio. Quante infinite discussioni, riunioni, organizzazioni; alla fine questo organismo non è più riuscito a rigenerarsi e si è nutrito di sé stesso. Non chiude scomparendo, ma dando azione a l’ultimo articolo del suo statuto quello che quando lo lessi pensai “è solo un’ipotesi messa lì per dovere”. Ciò che l’asta di chiusura non potrà assegnarmi sono le sensazioni vive di tante cose, ciò che non potrà lasciare agli altri è il senso di appartenenza ad una grande tribù, estesa come la gioventù, libera come il sogno.



Foto: "L'ultima, veramente", 11 marzo 2011. Qui le altre.

domenica 6 marzo 2011

Save the clown


Non è tutta colpa di Stephen King se un po’ mi fanno paura i clown, lui ha solo portato al paradosso quella che dovrebbe essere una figura divertente, comica, scaramantica. Non è nemmeno colpa di Heinrich Böll e quella doccia di malinconia che mi ha rovesciato addosso. Forse un po’ per William Shakespeare che li ha messi a scavare fosse o per Jerry Lewis che faceva ridere facendoli piangere. Nel profondo mi inquietano, con le loro facce estreme di maschera greca, ma mi attirano come un piccolo dolore o un pericolo controllato. Li temo perché sono imprevedibili, la loro comicità è rappresentazione totale delle disgrazie della natura umana. Certo recitano, ma lo fanno usando il pubblico. Un clown è colui che si dipinge una maschera sul volto e poi ti rappresenta, è la caricatura di un momento, ma è anche un portatore di verità, una specie di specchio. Il clown, il buffone, doveva colpire a fondo per liberare la risata, ma il colpo doveva essere preciso perché non gli si rivolgesse contro. Era un po’ guerriero, nemico del cortigiano. I cortigiani di oggi sono anche dei buffoni, ma solo perché si ricoprono di ridicolo. Forse il clown sono l’uomo e la donna che si sono liberati, indossando la maschera, dalle convenzioni, dai moralismi; giustificati per ogni eccesso purché portino la maschera. Si stanno estinguendo, tolti dalle strade e dai romanzi, messi nei circhi; stanno scomparendo con tutta la loro riserva. Eppure le persone non sono cambiate, le nostre piccolezze sono le stesse. Rideremo sempre di uno spruzzo d’acqua da un fiore finto, o da un uomo che inciampa nelle proprie scarpe cercando di conquistare l’attenzione di una leggiadra ballerina. Forse stanno scomparendo perché ridiamo meno noi.


foto: un clown modella palloncini in Corso Vittorio Emanuele.

sabato 26 febbraio 2011

Proposta di sogno


Vorrei provare ad esserti da guida in un piccolo viaggio, che forse ricorderai come un sogno, ammesso che tu lo voglia ricordare. Ti porto per le strade della città, fingendo di non essermi perso, ma sarà una menzogna perché mi perdo sempre. Mi perdo perché ogni volta guardo i palazzi, li spiazzi, i dettagli , con occhi nuovi, o almeno ci provo. Speriamo ci sia la nebbia, anche se fosse estate. Mi serve per nascondere la parte bassa dei palazzi, le vetrine, i milioni di negozi di abbigliamento; mi serve anche per creare un po’ di sorpresa perché le cose non ti arrivino tutte assieme. Se avessi tempo per prepararmi ingaggerei dei teatranti, con costumi incredibili per farti vedere come vedo le cose. Di come le persone mi compaiano nella sorpresa prima ancora che agli occhi. Non spaventarti per le mostruosità è solo la loro caratteristica predominante, forse in fondo sono buoni, ma chi se ne frega, tanto io li vedo così. Le fatine zompettanti puoi ignorarle. Anche gli animali pelosi dalle molte zampe, sono veloci, fuggono appena osservati. Nota le provenienze ci sono tutte, con tutte le lingue e le cucine. Forse sto esagerando perché non ci sono auto posteggiate in seconda fila. O forse è già passato il mio esercito punitore? Come nella realtà, anche qui i palazzi sono tutti diversi tra di loro, nota le decorazioni alle pareti, gli androni, i balconcini. Spero che tu abbia colto il grande numero di palazzi dalle facciate curve, senza spigoli, quasi a voler accompagnare le curve della strada o le abbondanze delle piazze. E’ una città tonda questa, se giri un angolo non sai dove potresti spuntare. Ora devo decidere da dove far partire l’esplorazione, se dalla metropolitana del Duomo perché la sua facciata ti appaia subito morbida e maestosa, o dalle villette a schiera di una zona quasi centrale. Sono carine, piccole, colorate, sembrano un gregge di cuccioli tremanti. Magari preferisci partire da fuori città e piano piano assaporare l’attraversamento delle strade circolari, come la discesa negli strati di una torta. Purtroppo è un viaggio che non si può fare in un’uscita sola, immagina questa città come una donna poco espansiva, che non parla di sé se non a piccoli indizi; occorre frequentarla spesso prima di imparare il codice del suo linguaggio.



foto: Manifestazione “Tanti popoli un'unica lotta 2011”, Milano 26 Febbraio 2011, esibizione del gruppo basco. Altre foto della giornata.

lunedì 14 febbraio 2011

Baci di luna piena



Ruotiamo come satelliti sotto la luce del nostro satellite naturale. L’acqua rimbalza tra la Luna e la nostre carni, un legame d’argento che lega gli uomini e le donne, le loro storie, le loro durezze, le tante morbidezze, la femminilità che tutto ricopre. Se non fosse stato per un intuitivo suggerimento di Hannah mi sarei perso qualche cosa di importante. Adesso le sono grato perché un ho debito. La gente fuori dal teatro che cercava i biglietti “a qualunque prezzo” aveva ragione, così come avevano ragione i cento che si sono accaparrati i posti in piedi. Non credo di capire il balletto, e non so se questo sia un balletto, è un teatro che danza. Gli attori ballano, e lo fanno con movimenti che non avrei nemmeno immaginato; ma recitano e lo fanno con tutto il corpo, con la scenografia, con l’uso dello spazio e a volte anche della voce. Ci sono piccoli gesti che mi hanno fatto sussultare sulla poltrona, altri hanno rapito la mia fantasia e sono andati a riposare nella lista dei desideri. Posso solo tentare di descrivere il gesto ma non l’effetto che da l'appoggiare il capo sul ventre di una donna e il suo corpo si avvolge intorno, ed entrambi scivolano a terra in un’unica forma. Il gesto del bacio, ripetuto, martellante, percussivo, non lungo ma molteplice. Enormi rappresentazioni di gesti piccoli, eleganti dialoghi fatti di corpi, che sarebbe bello riuscire a mettere nel discorso di ogni giorno.



Foto: Vollmond di Pina Bausch [Intervallo] - Teatro Strehler - Milano, 13 febbraio 2011

venerdì 11 febbraio 2011

Arimo


Credo di aver bisogno di riposare un poco, di aspettare che il mio corpo riprenda la voglia di camminare. Credo di dover fare le pulizie nel mio cranio, scrostando e sbrinando i pensieri vecchi, per fare spazio a cose nuove. Penso che potrei fermarmi per un po’ e lasciare scappare alcune cose. In fondo posso non essere in certi posti, non vedere certe cose, non fare. Potrei immaginarmi come convalescente: molto riposo e cibi leggeri. C’è sempre il lavoro che si prende molto, ma potrei far finta che sia una specie di terapia riabilitativa, per tenere in funzione le giunture. Solo che ci vorrebbe un posto, un libro e un meteo adeguato. O forse un cane da far correre dietro ad un bastone. Una passeggiata quotidiana in un luogo conosciuto ma sempre differente, come un bosco o un mare. Sarò pronto a ripartire quando me lo diranno i miei sogni, quando nel sonno non vivrò come da sveglio. Quando le storie del riposo saranno a colori forti, senza regole o protagonisti, come se fossero raccontate da una voce esterna che non conosco. Quando la mattina, una volta sveglio, potrò tornare a congratularmi con me stesso per le mie fantasie, invece che analizzare e rimproverarmi le mie incolmabili mancanze.


foto: Naviglio della Martesana, Milano, 6 febbraio 2011

mercoledì 9 febbraio 2011

Paura


Perché non parliamo mai di paure? In fondo è la paura che guida la nostra vita. Anzi la Paura, una in particolare, quella inevitabile, senza nome, quella certa. Ci domina e ci obbliga a valorizzare il tempo, o a goderne, ci spinge verso le religioni o ci allontana da esse. Siamo in galleggiamento nell’acqua che gira nel lavandino verso il foro dello scarico, lo vedi? E’ quello. Quando mi sono accorto che era tutto vero, che sarà tutto vero, mi prese il panico e mi misi ad urlare disperato, avevo circa 12 anni e avevo appena visto le scene iniziali de “I quattro dell’oca selvaggia”. Nel film il gruppo entra in una caserma e uccide con un gas dei militari nel sonno. Mi prese la follia pensando a quei tizi che si erano addormentati pianificando cosa fare domani, alle cose rimandare, a quelle che sarebbero venute, invece... Confesso che a volte la vertigine del panico mi prende ancora, nella notte quando esco da qualche incubo che non riesco mai a ricordare. Tutta colpa dello stress, si dice. E prima o poi riuscirò a strappare in due il cuscino con le mani! In questi casi, dopo la tachicardia c’è solo l’invidia, per chi è certo di non essere solo piccolo istante nel nulla, di non essere fatti della stessa materia di cui è fatto il pensiero, della stessa inesistenza di un lampo di luce. Quando spengo il computer tutto ciò che c’è nella sua memoria scompare nel nulla.


foto: Palasharp Milano, 5 febbraio 2011 (Sono qui)

sabato 29 gennaio 2011

Ossigeno nel giorno del blocco del traffico


Le carezze della musica eseguita da vivo mi conquistano solo quando riescono a far andare lontano le mie fantasie, quando la mia curiosità inizia a frugare nei dettagli, fino sotto i tasti del sassofono. Allora inizio ad esplorare le facce dei musicisti, la minima espressione, sperando di cogliere il godimento, la tensione o qualche altro umano sentire. Rimango rapito dalla serena dimestichezza con cui maneggiano gli strumenti, come se non importasse più la posizione delle mani. Da quel momento non mi sembrano più umani, ma estensioni carnali del loro strumento: tentacoli muscolari chirurgicamente cuciti nel legno e nel ferro. Seguo le mani, immagino la linea dello sguardo, traduco le pieghe della bocca, per rubare un poco di più di ciò che mi regalano le orecchie. Più si entra nella musica più si cerca la musica; più si incontrano le cose conosciute, più queste diventano disgustose. Come deve essere difficile per un musicista ascoltare musica che lo entusiasmi! Riuscirà mai ad accendere la radio? Cercando la musica composta da un uomo chiamato Moondog che viveva tra le strade di New York negli anni 50, rendergli omaggio e aprirci gli occhi. Quando chiusi nella propria casa si sentiamo al sicuro, ventate di aria nuova rinnovano il richiamo e danno un senso al respirare.


Foto: Hobocombo @Leoncavallo 28 gennaio 2011

sabato 22 gennaio 2011

L'uomo senza parole





Le parole si bloccano o si travestono da baccanti umoristiche se cercano di parlare della situazione italiana sia politica che sociale. La rabbia si appallottola in un grumo di saliva che soffoca, allora bisogna lasciarla defluire piano, ridendo, perché non è più tempo di spiegazioni e di ragionamenti. Di fronte a tutto ciò non c’è nulla da analizzare o da capire, se non per scoprire che non è il fondo del pozzo e che c’è già chi sta scavando. La generazione dei nonni ha costruito, quella dei padri ha lasciato che ciò che c’era da finire diventasse libero di distruggere il costruito, la nostra ora deve pagare il prezzo di essere consapevole del declino, la nuova avrà almeno la possibilità di ricominciare senza eredità. Se guardo la fantascienza sorrido, temevamo il disastro nucleare, invece ci troviamo quello sociale, temevamo gli alieni ma covavano il nemico dentro, chiamavamo utopia un progetto e oggi facciamo di tutto per addormentarci e non sognare. Eccolo il postmoderno, l’assenza del desiderio, la mancanza del progetto di un futuro migliore, mentre ci accontentiamo che il domani sia poco meno peggio dell’oggi. Ma tutto ciò perché? Perché lo tolleriamo? Perché aspettiamo che la palla di rabbia nelle nostre gole esploda portandoci a fare cose che poi condanneremo nei libri di storia? Ho sempre pensato che gli U.S.A. fossero un anticipo del nostro presente e che, in un modo o nell’altro, avremmo seguito le loro evoluzioni; ma questa volta non trovo nulla nella storia che non assomigli all’oggi se non ciò che c'era prima della Rivoluzione Francese. Anche se non ci manca la ghigliottina, sento la mancanza di Voltaire, forse anche di un Napoleone, insomma di qualcuno o qualche cosa che incarni un futuro possibile. Non voglio uno scarto di politicante, o un isterico comico, nemmeno un lungo o un tempo, voglio un libro. Un libro da mettere in mezzo al tavolo e lasciarlo crescere, che sia mattone e cemento di un futuro. Non voglio un libro che detti un'indiscutibile verità come una Bibbia, nemmeno un testo che faccia un’analisi scientifica come il Capitale, voglio qualche cosa di più quotidiano. Voglio un cielo grigio sopra un porto che sembri un televisore sintonizzato su un canale morto.




Foto: L’uomo con il megafono, P.B. 22 gennaio 2011

mercoledì 12 gennaio 2011

Fuori tempo




Il tempo cerca di fluire liscio intorno, bruciando le cose e le persone, facendo scadere gli yogurt e le assicurazioni, ma su di me si infrange. Sono come un masso nel mezzo del fiume. In questo devi ammettere che ho vinto io: ho spezzato ogni data. Sono nato nel periodo non previsto, ed è stato solo l’inizio. Da bambino ero già vecchio, o per lo meno un po’ meno giovane di oggi che non so cosa sono. Non ho rispettato nessuna scadenza, benché ci tenga alla puntualità e non mi piaccia far aspettare. Forse ho deluso qualcuno ma non l’ho fatto volontariamente, e forse me ne pento in un caso solo. Se avete un progetto di vita su di me potete buttarlo, non credo che lo rispetterete. Magari parliamone, se riuscite a convincermi farò di tutto per esaudirlo; ma non sedetevi su di una panchina di un qualsiasi parco, di una qualsiasi città, ad aspettarmi perché non passerò. Questo essere fuori dalle agende è un peso, ed se a volte sembra leggero è solo per fortuna, e perché non bado a certe convenzioni sociali. Non è nemmeno una libertà, è solo un modo di vivere ad una altra velocità, non costante.


foto: opera di Loris Cecchini - Wallwave Vibrations (quanta canticum) - 2009 @Fondazione Pomodoro Gennaio 2010

martedì 4 gennaio 2011

Decantercoaster


Si getta il rosso dalla mano, al bicchiere, al vuoto. Si infila e gira nel vortice nel collo. Ogni singola goccia si aggrappa al vetro con unghie di viscosità e urla di panico nella caduta. Ancora più sotto a testa in giù finché la gravità non strappa il fluido dall’alto e lo butta nello stagno placido dell’arrivo. Come il mio sangue, all’improvviso, per ogni cosa nuova, si rimescola come una folla in fuga e, passato l’evento, si placa come se nulla fosse accaduto. Vino rosso coagulato, indifferente, in attesa delle labbra.



foto: decanter, 31 dicembre 2010