lunedì 21 marzo 2011

Free hugs, on request


Mi piacciono gli abbracci, mi piace farli, mi piace riceverli, mi piace guardarli. Mi piacciono anche se non li faccio mai. L’abbraccio è una cosa difficile, non è il gesto banale da telefilm americano. Si aprono le braccia aumentando il proprio volume apparente, si abbassa una difesa e si offre il petto. Quando i corpi si avvicinano non possono più dirsi estranei, si mischiano le temperature e si possono sentire gli odori. Io abbraccerei in continuazione, anche se non lo faccio mai. Domenica Gionni mi ha salutato accogliendomi con un abbraccio ed è stato bello salutarlo così. Se fosse dipeso dalla mia iniziativa non ci saremmo abbracciati, io non so leggere gli equilibri. Il mio timore di violare lo spazio altrui mi bloccherebbe e dopo tanti anni non so ancora quando si può abbracciare e quando no. Un abbraccio rifiutato o accolto malamente mi allontana per sempre, come un’ustione. Mi serve un codice esplicito, un concordato di vicinanza. Però a volte sì, ma solo quando sono sicuro, quando so che non da fastidio, quando non sembra banale, quando non è prendere ma è dare. Potrei mettere un cartello di istruzioni: Attenzione contatto fisico a crescita esponenziale inversamente alla distanza superata. Una volta nella presa di un abbraccio ho perso tanto, troppo, quella volta l’ustione venne dal vuoto.



foto: Abbraccio al Politecnico, 20 Marzo 2011.

sabato 12 marzo 2011

Ultima birra in Tribù


Mi ricordo che ero con Paolo, che faceva freddo e che c’era un po’ di nebbia. Con qualche difficoltà la trovammo in quel cortile anonimo dietro un piccolo market. La prima persona che mi rivolse la parola fu Claudia che mi chiese “come ci avete trovato?”, io innocentemente gli dissi “ci sono volantini appesi ovunque”, “ah, qualcuno allora li guarda!” concluse. Pensavo fosse un’espressione ironica, ma divenne il leitmotiv per 16 anni. Sono passati 16 anni e in questi giorni chiuderà. Era nata come associazione giovanile, divenne di tutto, tra cui C.S.A. (centro sociale affittato). L’unico suo obiettivo era rigenerarsi, cercando sempre forze nuove, dando risorse a chi aveva idee, cercando di rompere il dualismo “io e la mia tv”. Ci passai 10 anni, quando ancora non c’era il bagno, forse i 10 anni più intensi della mia vita. Io che non ho mai frequentato le compagnie in quel posto trovai una tribù di gente come me, eppure molto diversa da me. Non so elencare le cose che ho imparato, di sicuro la forza del gruppo e il limite del gruppo. Se penso a tutte le persone incontrate, alle parole spese, alle idee buttate e quelle realizzate: mi vengono le vertigini e mi sento vecchio. Quante infinite discussioni, riunioni, organizzazioni; alla fine questo organismo non è più riuscito a rigenerarsi e si è nutrito di sé stesso. Non chiude scomparendo, ma dando azione a l’ultimo articolo del suo statuto quello che quando lo lessi pensai “è solo un’ipotesi messa lì per dovere”. Ciò che l’asta di chiusura non potrà assegnarmi sono le sensazioni vive di tante cose, ciò che non potrà lasciare agli altri è il senso di appartenenza ad una grande tribù, estesa come la gioventù, libera come il sogno.



Foto: "L'ultima, veramente", 11 marzo 2011. Qui le altre.

domenica 6 marzo 2011

Save the clown


Non è tutta colpa di Stephen King se un po’ mi fanno paura i clown, lui ha solo portato al paradosso quella che dovrebbe essere una figura divertente, comica, scaramantica. Non è nemmeno colpa di Heinrich Böll e quella doccia di malinconia che mi ha rovesciato addosso. Forse un po’ per William Shakespeare che li ha messi a scavare fosse o per Jerry Lewis che faceva ridere facendoli piangere. Nel profondo mi inquietano, con le loro facce estreme di maschera greca, ma mi attirano come un piccolo dolore o un pericolo controllato. Li temo perché sono imprevedibili, la loro comicità è rappresentazione totale delle disgrazie della natura umana. Certo recitano, ma lo fanno usando il pubblico. Un clown è colui che si dipinge una maschera sul volto e poi ti rappresenta, è la caricatura di un momento, ma è anche un portatore di verità, una specie di specchio. Il clown, il buffone, doveva colpire a fondo per liberare la risata, ma il colpo doveva essere preciso perché non gli si rivolgesse contro. Era un po’ guerriero, nemico del cortigiano. I cortigiani di oggi sono anche dei buffoni, ma solo perché si ricoprono di ridicolo. Forse il clown sono l’uomo e la donna che si sono liberati, indossando la maschera, dalle convenzioni, dai moralismi; giustificati per ogni eccesso purché portino la maschera. Si stanno estinguendo, tolti dalle strade e dai romanzi, messi nei circhi; stanno scomparendo con tutta la loro riserva. Eppure le persone non sono cambiate, le nostre piccolezze sono le stesse. Rideremo sempre di uno spruzzo d’acqua da un fiore finto, o da un uomo che inciampa nelle proprie scarpe cercando di conquistare l’attenzione di una leggiadra ballerina. Forse stanno scomparendo perché ridiamo meno noi.


foto: un clown modella palloncini in Corso Vittorio Emanuele.