sabato 28 ottobre 2017

Arte Ribelle



Come una tempesta chiusa in un bicchiere tappato dal palmo di una mano. Purtroppo anestetizzata, catalogata, esposta, de-localizzata, solo come una mostra, o una ricerca, possono fare. E’ comoda la storia srotolata e ordinata in una stanza, invece che sparsa nelle pieghe di istanti non ben documentati.
Forse è colpa del contesto, troppe banche e istituzioni per non far pensare alla belva in gabbia durante un cocktail party a bordo piscina. Ma non importa, gli sconfitti diventano schiavi e vengono portati in corteo come tesoro di guerra.
Mi chiedo se invece sia ancora possibile un’arte così? Così come? Così esplicita, così didascalica, così affannata nel cercare la via per portare un messaggio sovversivo direttamente al cervello, o al cuore.
Altrimenti, se l’assenza del contesto e dell’assenza di una diffusa convinzione di un’idea la renda inutile, per non dire invisibile, per non dire ridicola. Eppure non sono le figurine del “Milanese imbruttito”, nemmeno una vignetta di Biani o un meme qualsiasi costruito nella cultura social-tv americana e diffuso nel mondo per premio di maggioranza mediatico.
Com’era vivere quel costruire sperando, cercando, facendo?



Foto: un particolare di un’opera di Nanni Balestrini e dell’allestimento. Milano, 28 Ottobre 2017, Galleria Gruppo Credito Valtellinese

sabato 7 ottobre 2017

La terapia del dolore

Meglio cosa di questo nulla? Ad un certo punto mi sono accorto che preferirei provare dolore. Un dolore scelto, selezionato come una razza canina, puro come una droga svizzera, somministrato per bisogno come il Malox. Non il dolore della malattia e nemmeno quello della morte vicina. Rivoglio il dolore della negazione, della mia specifica esclusione dalla tua vita, se non posso riavere il dolore di un morso o delle unghie nella pelle in un momento di gioia folle.
Rivoglio almeno un dolore da far consolare, da poter raccontare ubriaco a degli sconosciuti. 
Ma non questo nulla. Non posso vivere anestetizzato come come un centro storico di notte: vissuto solo dai netturbini. Mi sto accontentando di un amico che mi cerca con proposte che fanno piacere solo a lui. Mi accontento di essere utile in qualche modo, mentre vorrei essere superfluo e cercato solo per ciò che sono. “Vieni più vicino”.


Foto: Camogli, Luglio 2017

lunedì 1 maggio 2017

Invito al mio viaggio



L’idea sarebbe che questo improvviso cambio di programma ci ha regalato una giornata. Ti vengo a prendere, ma copriti che piove. No, non portare l’ombrello che ci intralcia, basta un cappuccio, al massimo ci bagnamo un po’ correndo. Che ne dici di una una mostra, da percorrere in silenzio ognuno con un proprio percorso, per poi ritrovarci alla fine e parlare tanto di ciò che ci è piaciuto. Magari ci vediamo al negozio del museo a ridere di gadget. Potremmo percorrere tutti i portici, correndo mano nella mano dove piove. Scendiamo sotto la Rinascente a bere il caffè come i turisti e a guardare cose che non compreremo mai. Possiamo baciarci sulle scale mobili, lo sai che è una mia fissa. Possiamo anche vagare lenti davanti alle vetrine più famose ripetendoci in continuazione che gli abiti sono tutti uguali, come uniformi, alla faccia del libero mercato. Vaghiamo così tanto per stancarci; così quando sei stanca in metropolitana ti puoi appoggiare alla mia spalla, mentre ti bacio piano piano, pianissimo, il collo. Torniamo da me e ci togliamo le  giacche, e tutto il resto. Non ti restituisco più, non ti riporto più a casa, lo prometto. E’ una bella idea? Sì? Allora perché ti ho scritto solamente “Buone feste”.
Lo sai che nel Qoelet, nel capitolo 3, non c’è scritto che esita un tempo per pentirsi e un tempo per perdonare. E’ l’unica cosa che ho imparato.


domenica 26 febbraio 2017

Cerchiamo di inventare un gioco nuovo


Inventiamo un gioco che non sia la metafora della guerra, dove non si debba annientare o umiliare l’avversario. Facciamo che non sia la trasposizione di una battuta di caccia, il contendere una preda con un branco o con un singolo campione. Non si deve giocare da soli, nemmeno uno contro l’altro, possono giocare più squadre o giocatori singoli contemporaneamente. Devi poter giocare anche se non vuoi stare in una squadra, oppure facciamo che il numero di componenti di una squadra non conti, valgono anche le squadre assenti. Facciamo che non ci sono ruoli o parti da interpretare. Che se ci sono delle regole le diciamo subito oppure tutti le dobbiamo scoprire durante. Magari se le scopriamo, nel mentre, fermiamoci un attimo a parlarne. Facciamo che lo scopo del gioco non è vincere, ma l’orgasmo della vittoria sia spalmato per tutta la durata del gioco indipendentemente dal risultato. Deve essere un gioco in cui ognuno ci mette del suo, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche. Non ci si iscrive, ci si trova la e si gioca. Lo vogliamo un arbitro? Non lo so, però se c’è ha sempre ragione lui e se sbaglia è implicitamente un giocatore. Facciamo che un gioco così non potrà mai esistere, oppure se esiste, dovete dirmi come si chiama e perché non ci avete mai fatto giocare.


foto: Let's invent a new game

giovedì 16 febbraio 2017

Chiamata ai poeti



Quanti poeti ci sono intorno a me? Quanti si fermano senza fiato trafitti da un raggio di luce che rimbalza in modo imprevisto? Quanti ammutoliscono per aver visto un dettaglio che gli ha toccato una corda profonda e se ne portano dentro le vibrazioni per ore?
Uno sguardo rubato per strada? Un saluto dal tono sbagliato? La coincidenza di un pensiero, di un incontro e di una scritta sul muro vi imprigionano?
Sappiate che il mondo è vostro, dicono, ma lo state lasciando in mano a chi non ha tatto, a chi lo guarda come se guardasse il proprio riflesso nei vetri della metropolitana, soltanto per non guardare. Sappiate che avete un tesoro che non potete donare, che malamente sapete raccontare. La consapevolezza vi renderà ricchi, ma solo per potervi donare.


martedì 4 ottobre 2016

Compasso


Ho ascoltato il vento che mi parlava di me, diceva ciò che non volevo sentire. Forse non era il vento ma un amico dietro una birra. Ho cambiato le vele per spostarmi lentamente tra i flutti quotidiani, lasciando che i porti lontani si avvicinassero senza sorprendermi. Ho rinunciato alla gioia improvvisa, quella col sapore del vino forte, ma mi sono liberato dai sorsi amari.
Mi sono seduto, dove forse Socrate aveva pisciato di nascosto un pomeriggio, e ho sentito il giro delle vite stringente come un abbraccio.
Ho frugato nelle probabilità mettendo la mano nel gorgo di ciò che non conosco sperando in un colpo fortunato. L’ho ritirata cinico, deridendo il mio tentativo infantile.
Ogni mattina mi chiedo “come stai?” , forse te lo chiedo, forse glielo chiedo. Ma per favore non rispondete tutti assieme.
Ho avvistato qualche cosa, viro nella sua direzione, sperando sia un’isola o una balena, forse un detrito galleggiante.
Avevano ragione Baudelaire e Pavese.



Foto: Stillness, 21 Agosto 2016

domenica 22 maggio 2016

Meglio



Meglio percosso come i tasti di un pianoforte da un musicista infuriato, che dimenticato come un violino in un solaio mai frequentato.
Meglio ubriaco, sotto il sole, tra sconosciuti di un'altra lingua che ti dicono grazie per ogni cosa, che tra amici che ti dicono grazie per ciò che dovrai dare.
Meglio con il mal di piedi per il tropo camminare, che immobile ad immaginarsi camminante.
Meglio incazzato con i mali del mondo, che illuso della loro origine.
Meglio il brivido creativo che si rinnova, che la sazietà di una sola opera ammirata.
Meglio adesso, che ieri, anche se non tutti gli ieri.
Meglio il mio magazzino pieno di sogni, che tutti i magazzini con i sogni in vendita.
Meglio vedere i propri limiti, che non apprezzare il contorno delle cose.
Meglio la polvere tra le pagine, che non vedere il non scritto.
Meglio capire la violenza di un aborigeno, la saggezza di una bambina filippina, la nobiltà di uomo delle isole, che non capire tutti quelli che mi stanno intorno.
Meglio il mio peggio oggi, del mio peggio di ieri, ma non del mio meglio, che per quel che vale, sarà sempre mio.


Foto: bright pink band - 21 Maggio 2016

domenica 20 marzo 2016

Ta bom


C'è probabilmente un eterno conflitto tra il viaggiatore e il turista, non solo perché il "viaggiatore odia l'estate" del turista, forse per un sapore di un possibile non ritorno che il turista non conosce. Non importa, non sceglierò un lato della disputa ma rimarrò a pensare che ogni volta, prima di un viaggio, la sensazione più forte che provo è quella che mi spingerebbe a rinunciare alla partenza. Poi mi ringrazio per non averlo fatto, ogni volta, ogni destinazione, indipendentemente dalla distanza, la metà o la compagnia. Ho deciso che posso viaggiare da solo, ma ci sono persone con cui viaggiare è più bello. Così in Brasile ho imparato l'accoglienza senza peso e l'abbraccio come saluto. A Montevideo che il Sud America non è il Sud America, che ogni volta che una cosa si semplifica con un aggettivo, quello è sempre sbagliato o almeno insufficiente. A Buenos Aires ho imparato tante cose: che posso ancora commuovermi alle lacrime incontrando le Madres di Plaza de Mayo, che non posso vivere in una città dove dei bambini dormono per strada e che la gente può applaudire qualsiasi cosa. A Iguazù mi sono ricordato di essere piccolo. Nel frattempo ho imparato a viaggiare in autobus, i nomi di frutti che nemmeno immaginavo potessero esistere, che ciò che qui è un'emergenza in un altro posto può essere la normalità, che i politici sono percepiti ovunque allo stesso modo, anche i tassisti. Non ho imparato ad accontentarmi, non ho visto la Croce del Sud, non mi sono ancora bagnato nel Pacifico, il Brasile che ho visto non è il Brasile a detta dei brasiliani. E' passato un po' troppo tempo dal mio ritorno a questo post; nel frattempo mi sono goduto, e smaltito, gli effetti benefici della mia assenza e ora cullo la voglia di ripartire.


sabato 2 gennaio 2016

Il segreto


Il segreto ha spesso la stessa forma del suo contenitore anche se non ha la sua stessa materia. Il segreto, anche se senza corpo, può essere talmente pesante da portare, che chi lo nasconde ne manifesta la presenza con la sola postura. Il segreto è un colpo di tosse trattenuto. Il segreto può essere nascosto sempre a tutti i sensi tranne uno, su sei. Il segreto spesso consiste nell’effetto che causerà ciò che si nasconde. Il segreto può essere conosciuto da tanti, ma resta tale, se ne nessuno ne può parlare. Il segreto resta più segreto se a goderne può essere uno solo. Il segreto parla lo stesso linguaggio di chi lo cerca, non di chi lo nasconde. Il segreto ha un valore intrinseco, proporzionale e indivisibile secondo la sua segretezza. Il segreto ha effetti sconosciuti che lo relegano a segreto. Il segreto è contagioso. Il segreto rimane tale finché non è perfettamente conosciuto dal suo custode. Il mio segreto è così effimero che basterebbe poco a farlo decadere a banalità.

foto: Il Segreto.

venerdì 11 dicembre 2015

In punta di matita

Pavese scrisse di quanto è difficile costruirsi su sé stessi, ogni volta, dopo ogni caduta, dopo ogni mancanza scoperta e divenuta insostenibile. Ed è difficile prendere il fardello di delusioni che avevamo fatto finta di dimenticare e rimetterselo davanti agli occhi, frugarci dentro, come in un vecchio baule abbandonato in solaio. Si tirano fuori cose che a prima vista sono nuove ma poi ti investe  quel ricordo, spesso amaro. Come se si misurasse la distanza tra il reale e il desiderato passando la lingua su un immenso limone. Affrontare il limite non basta, nemmeno, una brava e comprensiva insegnante finalmente trovata, è sufficiente, serve un tocco divino che compensi una lacuna nella propria creazione. Ad ogni passo c’è un inciampo e un livido, ma è  indescrivibile la dolcezza di un piccolo successo. Così resto incantato a guardarmi fuori da me, sulle sudate carte, felice di vedermi nuovamente appassionato. Alla fine del sentiero troverò un altro pezzo che cercavo da usare in qualche modo e strada facendo imparerò a tracciare mappe, questa volta da conservare. Così quella sera avrò qualche cosa da raccontarti, da mostrarti, che non siano le solite cicatrici.


Foto: Disegno numero 1. 10 dicembre 2015

sabato 17 ottobre 2015

Sole da mangiare


Dopo una settimana di pioggia grigia, caduta a piccole gocce dispettose, una giornata di sole va mangiata. Va inghiottita e messa dentro al torace. L’unico posto chiuso frequentabile è il negozio di colori di Brera; poi subito via, verso il Parco. Così che ti ritrovi in un attimo su una panchina, il sole caldo seduto vicino, le famiglie che passeggiano, le ragazze che corrono, un sax lontano che suona. Non vado nemmeno a cercarlo, non voglio vederlo, mi piace immaginare che sia una musica che venga da fuori quadro come una colonna sonora. Resto li e mangio autunno. Il libro che ho con me è un Erri De Luca, quello condannato da chi sa leggere la legge ma non la capisce. E’ un libro di strade iniziate, come i segni che indicano i sentieri in montagna. Dalle prime pagine prendo un nome Menahem Zemba e una frase “Gli insorti del ghetto cercavano di mettere in salvo i poeti, gli scrittori. Così fanno gli alberi circondati dalle fiamme: scaraventano lontano i loro semi.”. Ho mangiato ma non sono sazio, ma ho assaggiato la serenità e ora devo cucinarmela.

Foto: Al parco, 17 Ottobre 2015

venerdì 11 settembre 2015

Il cielo è indifferente


Il cielo è indifferente.
Quando indifferenti sono gli uomini, allora li giudichiamo ingiusti.
Come dovremmo giudicare ora questo cielo?



Foto: Agosto 2015

mercoledì 15 luglio 2015

Portatemi al mare

Due ragazze in metropolitana si danno istruzioni, con voce calma, sulle borse, i vestiti e le creme che porteranno nella loro comune vacanza. Così, all’improvviso, avrei potuto dire “Portatemi con voi!”. Andiamo assieme verso quel mare, vestiti il meno possibili, finché la morale lo consente. Restiamo distesi sulla spiaggia calda, sulla sabbia dura, con il sole che ci brucia la pelle e che cerca di infilarsi sotto le palpebre. Restiamo immobile per far bruciare la pelle, con in nostri tre corpi accostati, vicini fino a sentirne il calore e l’odore di crema solare. I bambini correranno spargendoci addosso la sabbia, noi sorrideremo, tre volte; alla quarta ci chiederemo dove sono i loro genitori e perché non si prendono cura dei loro figli. Potremo fare il bagno, dove goffamente cercherei di nuotare mentre voi chine nell’acqua poco lontano dal bagnasciuga vi immergerete immobili fino al collo e fino alla prossima onda. In quel momento vi concedo di ammirare gli altri uomini dal fisico scolpito da una ginnastica adolescenziale e da una genetica benevola. Mi immagino il frastuono dei rumori, dei gridolini, delle musiche lontane, degli aeroplani con le code pubblicitarie, delle onde contro i corpi dei bagnanti corpulenti che si fanno scoglio con la schiena. Passeggeremo lungo la lingua umida della sabbia compatta scavalcando castelli in costruzione e calpestando, fingendo distrazione, quelli sguarniti. Le conchiglie giocherebbero a bucarci la pelle dei piedi, mentre l’acqua simula una carezza scavando la sabbia sotto il nostro peso. Potremmo andare avanti così, per l’infinito, in uno stolto assolato presente decerebrandoci di nulla, di mare e di caldo. Potreste anche innamoravi di me, ma in quel momento saremmo già alla fermata dopo e le porte aprendosi farebbero fuoriuscire la spiaggia da questo vagone e dal mio vagare.


foto: Was here, 2012

sabato 4 luglio 2015

Intra moenia


Era il suo primo pensiero del mattino e, spesso, l’ultimo della sera. Fissava l’alta e spelacchiata siepe che lo separava la piccolo giardino del vicino e pensava che un muro sarebbe stato meglio.
Un muro non molto alto, un paio di metri, di mattoni rossi come la casa con un elegante bordo di granito in cima. Sarebbe stato più riservato, più intimo, più separato dal quella chiassosa famiglia con quel bambino urlante e quella griglia puzzolente sempre in funzione. Non avrebbe più visto il disordine di quel giardino a dir poco abbandonato, quel muso di topo del loro cane infilarsi nella siepe per minacciare la sua proprietà. Ma se quel muro l’ossessionava, l’altro lo faceva impazzire. Era la parete che separava il suo ripostiglio dalla camera da letto dell’altra famiglia di vicini, una coppia con due bambini e un simpatico cagnone. Non lo avrebbe mai confessato, nemmeno sotto tortura, ma aveva passato delle ore appoggiato a quella parete ascoltando la loro vita. Si metteva quasi seduto, appoggiando il sedere sullo scaffale nel poco spazio libero, le mani contro la porta e l’orecchio al muro. Poteva sentire le loro discussioni, i capricci dei bambini, l’abbaiare festoso di Koki. Assorbiva tutto, immaginava tutto e avrebbe voluto urlare la sua opinione di osservatore imparziale e indubbiamente saggio. Incontrando l’uomo della coppia per strada a volte avrebbe voluto fermarlo durante il saluto, buttare la qualche frase e parlando d’altro dargli la propria opinione, così per fargli capire che su di lui poteva contare. Qualche volta, di giorno o di notte, li aveva anche senti far l’amore e un orgasmo mentale aveva travolto anche lui nell’apice della partecipazione più intima. Più volte aveva cercato di architettare un modo per assottigliare quella parete, ad esempio grattandone via un po’ per volta il cemento, ma non ne aveva avuto il coraggio. Stava pensando di approfittare della loro partenza per le vacanze estive (quanto gli sarebbero mancati!) per forare in modo millimetrico il muro, non per spiarli, non sia mai, ma per respirare un po’ della loro aria. Come quel profumo intenso di carne alla brace, vigoroso e famigliare, ma no, forse no, quell’odoraccio arrivava dagli altri vicini.

Foto: Berlino, memoriale dell'Olocausto, 2007

martedì 23 giugno 2015

Goodbye Gotham


Non potevo non tornarci dopo quella fugace visita di poche ore e ci sono tornato per otto intensi giorni. E’ la città che tutti conosciamo, l’abbiamo vista in tutti i film e su tutti i vestiti. Se fosse una donna ne avremmo un’idea un po’ pornografica, come conoscerla in ogni sua intimità senza averla mai incontrata. Ma non è così, esattamente come se fosse una donna, non sarebbe mai quella che viene rappresentata. Se metto in ordine le sensazioni parto dall’olfatto, dall’odore di pattume lasciato sotto il sole fino a metà mattina invece dell’odore di smog che mi aspettavo. Per ultimo lascio il gusto, in un paese che non ha cultura culinaria e non la vuole, vorrebbe avere a propria disposizione quella di tutti i paesi ma poi li relega in ristoranti oscuri o in catene di fastfood dal sapore di ciclo fordista.
Il tatto non esiste, non ci si sfiora, nemmeno per passare la carta di credito al commesso. Non si toccano i passamano o i pali della metropolitana, ci si intimorisce nel pensare a quante mani li abbiano già toccati. La vista si confonde, dopo pochi minuti gli alti palazzi senza altri riferimenti sembrano tutti bassi uguali, casermoni di cemento e mattoni o di vetro e alluminio. Anche dall’alto, o dal fiume, resta uguale. Un mazzo di grattacieli che cercano il cielo per respirare e per mettersi in mostra, singole piume di una grande coda di pavone. Ma è il sesto senso che vibra senza posa, quella sensazione che dice che è esattamente quello che ti aspettavi: non una città ma la rappresentazione spettacolare di una città. Tutto, il dolore, la gioia, il sesso, la rabbia, l’individualità, la socialità sono rappresentate e portate a livello di spettacolo. Il memoriale dell’11 Settembre è l’icona di una incapacità di considerare le cose in un contesto, ma da isolare in bacheche, estremizzarle per renderle colossali, da ammirare e quindi distaccarle dal quotidiano. La gente, bambini compresi, si tatua il corpo perché scritte sulle magliette, ma nemmeno le mode, riescono più a raccontare queste milioni di vite e le loro singolarità. Il bombardamento di stimoli, che non la farebbe dormire mai, è in realtà un matra ripetuto con poche note variazioni. Il fermento vero, quello dell’anima, se c’è non si percepisce da turista. Forse è sotto i marciapiedi e si sfoga all’esterno con una costante nebbiolina calda. Forse è nelle strade più lontane dal fiume, a nord, dove le metropolitane si diradano e le vie si chiamano con numeri a tre cifre. Forse è nelle case minuscole, che si riempiono subito di cose, di ricordi ed emozioni, tanto che la gente deve mangiare fuori, nei parchi o sui gradini. Sono però sorridenti o recitano bonariamente lo sguardo da duri, gli immigrati ti raccontano che qui hanno avuto la loro possibilità. La chiamano “qui guadagno tanti soldi”, non ti dicono mai quanto, ma sono sempre tanti quanto bastano per dirsi rinnovati. Non è un buco che attrae per masticare, è una culla che vuole accogliere. In cambio chissà cosa pretende? Forse si accontenta che venga recitata la parte assegnata. New York non è un palco scenico, è uno scrittore che si nutre di persone per costruire il più grande diorama del pianeta.

Foto: NYC, Giugno 2015

sabato 28 marzo 2015

Io, adesso


Questo sono io adesso. Questo è quanto poco sia io adesso. Manca qualche dettaglio, manca il tutto quello che vorrei essere, ma questo sono io. C’è il mondo in cui vivo e non capisco, quello che cerco e quello che vorrei costruire.C’è tutta la teoria e la mancanza di pratica, il desiderio e il vuoto che lo realizza. Sembra pieno ma è solo confuso, come i continuo flusso di pensieri che si scontra nella mia testa come le nuvole di di un temporale. C’è anche, l’ho intravisto, il mio continuo conflitto con tutti e con tutto, sono un naufrago su un isola deserta che litiga con una noce di cocco. C’è il sole, ma dovrebbe esserci la sera; c’è il viaggio ma dovrebbe esserci la paura. Ho promesso si essere clemente con me stesso, almeno quanto lo sono con gli altri. Dovrei partire da qui per impormi a me stesso.


Foto: Io, adesso. 28 Marzo 2015

venerdì 16 gennaio 2015

Aggiornamento da lontano


Ciao, è da un po’ che non ci si sente. Come va? Non dirmi che non ci sono novità perché non può essere vero. Il mondo vive sempre le sue tragedie, alcune silenziose alcune molto rumorose. In fondo quelle che si sentono di più sono anche quelle che fanno sembrare la gente più umana, o semplicemente solidale. Se lo fosse per ogni tragedia le dimostrazioni di dolore e indignazione non finirebbero più. Ma le tragedie finirebbero? Sì anche tu hai partecipato, hai fatto bene. A volte è importante esserci per essere sicuri di… esserci. Il resto? Il solito spazio vuoto? Ah, no come lo chiami tu… il deserto di marmo? Su... passerà, tutto passa, o passa questo o possiamo noi. Ma sì, sono piccole delusioni, che offuscano i momenti di felicità. Dai facciamo qualche cosa, programmiamo qualche viaggio, andiamo a vedere qualcuno o qualcosa! Capisco, l’agenda è già piena… sarà per un’altra volta, magari quando vuoto e pieno non coincideranno.



Foto: Mandala - Pantigliate (Mi)

sabato 22 novembre 2014

Questo sabato


A volte capitano questi sabato mattina quasi perfetti. Una notte segnata da strani sogni e un risveglio lento, ma senza colpe. La colazione lenta e il proposito di uscire che non si dissolve in immaginari ostacoli. Il freddo leggero, il sole, la poca gente sulle strade. Un venditore di Terre di Mezzo ti sfodera un mazzo di testi tra i quali spunta proprio quello che forse cercavi, di cui avevi sentito e che forse volevi. Via Tadino e dintorni colorano di domestica tranquillità una città globalizzata. Un gentile addetto della Provincia ti appare orgoglioso del suo lavoro. Giacometti ti circonda di gambe lunghe e ti parla di esistenze, di imperfezioni della realtà rispetto al desiderio. Non sono le stesse gambe lunghe che ti precedono sui marciapiedi di Corso Venezia. Sei felice di esserti portato la macchina fotografica e non la lasci sonnecchiare. Nulla ti spinge, nulla ti trattiene. Una quasi perfetta mattina di sabato. Quel quasi che resta nei sogni che hanno segnato la notte.



Foto: This is an apple. 22 Novembre

mercoledì 19 novembre 2014

La goccia sulla bottiglia


La goccia aggrappata al bordo della bottiglia trattiene il fiato ascoltando il tutto. Ascolta i rumori nella gente del ristorante, sente il freddo del vetro, sente il liscio del bordo a cui si aggrappa. Non sa come sia finita in quel posto né da dove venga. Potrebbe essere un goccia  sfuggita nel versare il liquido nel bicchiere, potrebbe essere condensa dell'aria aggregata in un punto, ma potrebbe anche essere lo sputo di un cameriere. Non importa, ciò che importa è che essa è. E' li ed è lei, e sente, e resta sospesa per un tempo indefinito. I sensi funzionano e lei accoglie le sensazioni dentro di sé. Io ho un blocchetto di piccoli fogli carta che sono l'archivio storico del mio umore, delle mie ansie e serenità. Sono l'appunto delle mie proiezioni e del mio rintanarmi. Il blocchetto non ha parole e ma solo scarabocchi: linee curve e rette, punti, trattini, tutti di vari colori. Sono un codice che io so leggere, e forse anche gli altri se sapessero che quel libretto è qualche cosa che si può leggere. E' un linguaggio semplice eppure non percepibile, come la voce di una goccia sul bordo di una bottiglia. Ascoltiamo.


Foto: Lago di Verbania, ottobre 2014.

venerdì 26 settembre 2014

Ciao



Margherita fissava dalla finestra il postino varcare appena la soglia del cortile per depositare la posta. La pelle bianca in contrasto con il nero dell'uniforme risaltava sotto il sole di mezzogiorno benché mezzo viso fosse protetto dall'ombra del berretto, una mano in tasca e l'altra fugacemente fece passare una lettera di color verde tenue nella cassetta violentemente rossa delle lettere. Il colore della busta annunciava un invito a qualche rituale festa per i genitori, un richiamo alla leva degli adulti arruolati nell'esercito del corretto comportamento sociale. Non si mosse per andare a prenderla tanto non era per lei. Fino a qualche settimana prima si sarebbe buttata come una donna in fuga da un incendio, giù per le scale, diritta in salotto, lungo il vialetto per prenderla. Avrebbe strappato con i denti la busta e l'avrebbe letta d'un fiato mentre rientrava lentamente, un'altra volta l'avrebbe riletta sulle scale, un'altra volta al tavolino e decine di altre finché non le fosse venuta l'ispirazione per la risposta. Ma questo valeva solo per le lettere di Oliver. Da due anni era iniziato questo fitto scambio di lettere, quasi quotidiano, tanto che un possibile ritardo poteva mettere in allarme sia lei che il postino. Aveva iniziato lei rispondendo ad un suo annuncio sul giornale, l'aveva intrigata l'idea di dialogare, anzi chiacchierare, con uno sconosciuto lontano che mai avrebbe incontrato, per promessa fatta a sé stessa. Racconti, pettegolezzi, giochi di parole, commenti sulla cronaca, confidenze, di tutto si erano scritti, in un dialogo che sembrava inesauribile. Poi all'improvviso cadde il silenzio, dopo una lettera di lei, non più lunga o più breve, non più densa o leggera, delle altre. Ne scrisse un'altra, poi un'altra cambiando il colore della busta, ma non arrivò più nessuna risposta. Lui le aveva scritto in passato di un momento difficile, forse una malattia, ora un ombra si faceva largo dando corpo ad un presentimento, come un fumo nero che invade una stanza. Restava nelle ore libere in una specie di ozio, seduta al tavolino, con i fogli ben ordinati e la penna appena intinta nell'inchiostro. Il polso piegato leggermente lasciava cadere sul foglio qualche goccia azzurra, come se questa volesse sfuggire ed andare a svolgere il proprio compito autonomamente sulla carta. Lo sguardo puntava al cielo, ma non scriveva, pensava. Immaginava di raccontare ad Oliver i suoi pensieri, svolgendoli ordinatamente come se fossero scritti. "Ciao" iniziava e srotolava lettere lunghissime che non scriveva, ma che spediva col pensiero, verso quel mondo non fatto di materia, dove forse lui le poteva ancora leggere.

Foto: Papers, Settembre 2014  ( handwriting base image by aliexpress.com )

lunedì 4 agosto 2014

Sacra Famiglia


Sarebbe rimasto per ore, forse per sempre, a guardare quel quadro. Ci veniva tutti i giorni e tutti giorni si metteva, dopo la funzione seduto sul bordo della panca a guardarlo. L’unico fastidio era lo sguardo fisso del sacrestano che gli si puntava nella schiena come un dito nodoso. Mai una parola, solo quello sguardo opaco, che non lo perdeva di vista un attimo. Cerco di concentrarsi sul dipinto, sulle pieghe del vestito azzurro, sui ricci della barba di San Giuseppe. Nell’uomo raffigurato riconosceva il volto e la corporatura del droghiere dell’angolo più a sud del quartiere, quel vecchietto dal sorriso bonario. Un uomo circondato da cibi e da dolci tutto il giorno, che sorrideva sempre, nonostante quella bastarda bisbetica della moglie e quella cigolante puttanella della figlia: sarebbe stato un padre perfetto, un perfetto Giuseppe. Maria era senza dubbio una delle giovani insegnanti dell’asilo comunale, quello che lui sbirciava dal buco tra il muro e la rete. Lei che cantava con quella voce fantastica, indescrivibile; fantastica anche quando richiamava i bambini per tornare nelle aule. Quando dopo l’ora dei giochi lui era sgattaiolato nel cortile per bere alla fontanella, lei lo aveva visto, ma non aveva detto nulla e non lo aveva cacciato. Sicuramente aveva sorriso anche a lui, come sorrideva generosa a tutti. Si immaginava di essere disteso sul lettuccio e dal quel punto di vista, vedeva sopra di lui i volti degli improbabili genitori. Ne sentiva il profumo, la morbidezza della mano sulla sua fronte, un dolce rumore di voci carezzevoli come sottofondo. Il pensiero correva subito a frammenti di sogno come gite in macchina con la testa fuori dal finestrino ridendo, biciclette rosse in regalo e tavole apparecchiate di piatti fumanti e colorati.
Era ora di uscire, la luce del tramonto gli diede uno schiaffo proprio sugli occhi. Si tastò il panno sporco di benzina nella tasca dei calzoni sudici e voltò le spalle al sole, doveva ritornare dagli altri prima del buio. Incrociò solo una bambina che piangeva, appesa e trascinata dalle mani dei genitori sfiniti. “scema!” penso “sei scema! soltanto una stupida scema!”

Foto: dettaglio della Cattedrale di San Giusto, Trieste

domenica 3 agosto 2014

Tutto bene, grazie


Sandra uscì di casa con il suo dolore al centro del petto. Un dolore che non aveva nulla di cardiaco e di cui conosceva tutto: sapeva da dove veniva, perché era li e che non sarebbe passato. Era una pesante palla chiodata appoggiata sullo stomaco che, ad ogni passo e ad ogni pensiero, ricordava la sua presenza. Sandra uscì con lo sguardo un poco opaco, forse per le lacrime a capolino delle palpebre, forse  per non dover guardare. Avrebbe voluto restare a letto ancora ma era stata distesa troppe ore, e non per sonno, ma per perdersi in quel dormiveglia di fantasie più o meno controllate che potevano creare una realtà alternativa, o tante realtà alternative, ma che tutte finivano nell’orbita di quel dolore. Camminando, incontrando gente più o meno conosciuta, si chiedeva se la gente leggesse nel suo volto la presenza del dolore e se dissimulasse la scoperta. Avrebbe voluto urlare ma non se la sentiva nemmeno di parlare. Descrivere a qualcuno quella cosa sarebbe stato impossibile, le parole avrebbero banalizzato il suo dolore come un “piccolo normale accadimento” della vita oppure come “una piega del suo carattere”, al limite come un po’ di “esaurimento nervoso”. Non poteva tollerare una risposta che includesse che le fosse la vittima predestinata di una crudeltà universale. Eppure lei sentiva il suo dolore come il più grande di tutti, e le prendeva il panico nel pensare che non sarebbe mai passato. La frustrazione che nulla poteva per evitarlo. Come la vittima innocente di un accanimento di cui non si conosce la causa né la motivazione, come un gatto torturato da un gruppo di bambini, o un gruppo di bambini bombardati per chissà quale volere di necessità superiori. Ogni persona che incontrava, lo sapeva bene, aveva la sua croce, pesante, terribile, intima, ma in quella folla di portatori di croci lei si sentiva persa impossibilitata a vedere una via d’uscita. Non poter sperare in un dio, in un farmaco, in un aiuto esterno era la conferma di una specie di predestinazione allla sofferenza che aveva colpito solo lei ed era stata costruita solo per lei. Un immenso teatro che contenesse l’umanità, un piccolo palco con sopra lei e il suo  dolore. Eppure c’erano stati giorni in cui quella sensazione era scomparsa, proprio dimenticata, vederla riapparire così in un istante era l’evidenza del sadismo della vita. Le aveva dato tregua per farla soffrire di più, per sconfiggerla proprio quando lei si sentiva di aver vinto. Camminò molto, con un passo svelto e nervoso, quello di chi sta andando in posto per fare una certa cosa, e non ha interesse in ciò che incontra sul percorso, come se la distanza tra la partenza e l’arrivo fosse solo un necessario impiccio da superare alla svelta. Cammino molto e arrivò alla fine della strada; non c’erano cartelli né segnali particolari ma era evidente che era arrivata alla fine della strada.

Foto: Trieste, 2014

venerdì 1 agosto 2014

Non m'è dolce naufragar benché questo mar…


Se dovessi abbandonare la mia città per un’altra scegliendola liberamente, forse andrei a Venezia. Il perché è difficile, ma per lo più è una questione di pelle, di spazi, di pieni e di vuoti. Forse anche di infinita precarietà. Un po’ perché non ci sono auto e le città pedonali sono attraenti. Trieste è una di queste: abbastanza pedonale, senza parcheggi e quindi respingente per le auto, con il mare. Il mare è tutto un altro capitolo: per me è come il fuoco, lo guaderei con timore per ore. Così come non mi addormenterei vicino ad un fuoco, credo, che non potrei nemmeno addormentarmi vicino al mare. Lo sento vivo, come un unico corpo immenso e  animalesco. Non posso fare a meno di fissarlo. Se abiti in una città con il mare e non hai nulla da fare puoi sempre andare a guardarlo, sarà uno spettacolo sempre nuovo, immenso e un po’ interiore, meglio di ogni televisore. Io non ho né televisore né caminetto, sento il desiderio di un mare da guardare. Si dice che i marinai non sappiano nuotare e potrebbe essere una romantica soddisfazione. Oggi ho comprato un libro sul Mediterraneo, un bel abbinamento tra il mare e una vecchia edizione che raccoglie articoli di un secolo fa. E un libro su Lisbona, anch'essa piccola e fragile, sul mare. E la guida per il Messico. In fondo il fuoco e il mare hanno in comune il continuo rimestare della loro materia; anche quando sembrano immobili, si muovono continuamente, come se fossero sempre insoddisfatti o in cerca di qualche cosa. Ora che ho svuotato la valigia guardo il contenuto sparso, come fosse una radiografia, chissà che non riesca a capirmi.


Foto: dettaglio dal Molo Audace, Trieste, Luglio 2014

martedì 3 giugno 2014

Invertigine


Guardare dal basso verso l’alto un monte immenso, un albero maestoso, un imponente edificio, ed immaginare di salirci. Immaginare, senza provarci, di sentire lo sforzo dei muscoli che ti tirano su metro dopo metro. Immaginare la temperatura dell’aria e la forza del vento cambiare, sentire il sole farsi più caldo perché vicino. Immaginare la gravità che si fa prima opprimente e poi lieve come un amano che vorrebbe trattenerti al suolo ma poi ti lascia andare ritirandosi. Immaginare il dolore dei polpastrelli uncinatii alla materia, la pelle graffiata, e goderne. La fatica viene sempre ristorata dalla visuale conquistata, dall’orizzonte nuovo, dal diverso punto di vista. Pensi che ne è valsa pena arrivare sudati così in alto? Si poteva rimanere a terra ma si avrebbe ignorato tuto questo, non avremmo visto quello che stiamo vedendo e vorresti urlarlo a tutti “salite pazzi! salite! non aspettate...”. Il cuore dopo un po’ si calma, il sudore si asciuga e inizia a fare freddo; quello che era un punto di vista nuovo diventa familiare, diventa un punto di vista tra i tanti. E’ ora di scendere. Ma perché rischiare? Magari cadere e sfracellarsi al suolo? Potremmo restare qui ancora un poco. Guardare dal basso verso l’alto e immaginare, non fare un solo passo, ma immaginare tutto e non muoversi. “Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo di ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure.” Ha detto un Alessandro Manzoni citando il Giulio Cesare di William Shakespeare.


foto: Trapped, giugno 2012

sabato 31 maggio 2014

Intimità


Lo spazio ristretto, isolato e protetto dell’abitacolo di un’automobile è una perfetta rappresentazione del spazio intimo del suo guidatore. Non per nulla le personalità emergono, come radiografate, osservando alcuni guidatori soli nella propria auto. Oltre a canzoni urlate ed rino-esplorazioni, l’automobile estende e mette su gomma alcuni aspetti della personalità. Io in auto parlo ad alta voce da solo, ovviamente se sono da solo. In questo periodo che ho alternato con frequenze incredibili giorni in cui ero completamente solo a giorni in cui ero immerso in dinamici gruppi di persone, più o meno conosciute, più o meno amiche, ma tutte vicine, ho pensato spesso al mio concetto di intimità.
Nella mia famiglia non ci si abbraccia o ci si bacia, praticamente non succede mai e credo non sia successo mai. Forse alcune volte talmente rare ed imbarazzate che si è dimenticato. Eppure è una famiglia molto unita e “affettuosa”, in altri modi. Io sono portato ad esprimere anche fisicamente il mio affetto e la mia vicinanza, quindi vivo un continuo conflitto nel mio comportamento. Se incontro un amico tendo la mano anche se vorrei abbracciarlo, raramente con una amica mi sporgo per sfiorarle la guancia, di solito aspetto di coglierne l’attesa. Questo è l’altro aspetto molesto: questo timore di sembrare invadente, di andare oltre il consentito, o forse peggio, ottenere un rifiuto. Il rifiuto mi è insopportabile, centra il nucleo più sensibile del mio orgoglio. Quindi il gesto affettuoso che è un ponte tra due intimità, per chi non ha meccanizzato e banalizzato certe esternazioni, diventa un tentennamento che aumenta il distacco. Adesso scendo dall’auto, abbraccio il tizio dell’autolavaggio e gli dico “bel lavoro!”... ma no, forse è meglio di no.




Foto: nell'autolavaggio, 27 Maggio 2015

sabato 8 marzo 2014

Aggettivo indescrittivo


Non è possibile trovare un unico aggettivo che descriva una personalità, anche il più apparentemente mediocre, è un caleidoscopio di caratteristiche quasi infinite. Certamente scegliendo con attenzione alcuni aggettivi potremmo riconoscere delle persone all’interno di un dialogo, ma sarà sempre un’ingiusta e superficiale approssimazione. Il singolo aggettivo può andare  bene per i personaggi della fantasia, per i miti, come il saggio Tiresia , il divino Giove, la bella Venere e il vagabondo Ulisse, ma non per la gente reale. In essi il singolo aggettivo racchiude la storia, è come la carta dei personaggi in certi giochi di ruolo, o la figurina del calciatore.  Ma la psicologia ha deciso che siamo più complessi, e ha spazzato via i personaggi bidimensionali, a favore di quelli iperdimensionali, alla Pirandello, per capirci. Ciò non ha nulla a che fare con l’unicità di ogni essere umano, ma solamente con la consapevolezza che l’aggettivo diventa etichetta, mutilando chi la riceve. Non c’è dubbio che spesso si  esponga  una maschera che invita a farsi classificare in un certo modo, che ci propone come un prodotto da scaffale, come un genere musicale. Siamo noi a farlo, spesso parlando di noi, vestendoci, raccontando le nostre scelte. E’ attraverso un aggettivo che si separano gli amici dai nemici e quando diventa il  passaggio da umano a disumano, è l’aggettivo ad aprire la strada per la violenza.  A volte poi gli altri insistono per raccontarci quale aggettivo hanno scelto per noi, e non è mai il semplice innocuo-pericoloso, come l’istinto vorrebbe, oppure il amico-nemico, l’infantile bello/buono-brutto/cattivo; spesso vanno a cercare la cosa più ambigua, sfumata, indefinita, ma che ha un preciso sapore immediato, generalmente amaro. Sì, lo so, sono cervellotico.



Foto: Maschera dell'Associazione Culturale Boes e Merdules, Ottana (Nu)

sabato 8 febbraio 2014

Il Vuoto



Secondo il Dao, ma anche secondo il buon senso, tutto nasce dal vuoto e il vuoto ha valore.
Un vaso lo si apprezza per la sua capacità, che è  il suo vuoto. Così una porta la si utilizza per la sua parte vuota in cui si può passare. Il vuoto contiene, accoglie, consente l’esistenza. Tutto ciò è un vuoto di prospettiva, ovvero che in futuro potrebbe essere occupato. Più difficile è cogliere l’utilità del vuoto per mancanza o per sottrazione. Se guardo un portafoglio vuoto non immagino il futuro guadagno, ma l’immediata spesa. Così una pancia vuota e affamata, un letto mezzo vuoto, una cornice vuota. Eppure il vuoto è sempre lo stesso, ma noi lo cogliamo differente. Da un lato una potenzialità, dall’altro un dolore. Allora chiudo l’attenzione su me stesso e faccio vuoto tra i pensieri, se ci riesco, i due sapori del vuoto iniziano a somigliarsi, poiché sono proprio i pensieri che spengo a renderli diversi.
In un teatro vuoto gioco con la mia voce e la scopro per la prima volta. Devo usarla per riempirlo, per esplorarlo come un pipistrello. I verbi del vuoto, vibrare, risuonare, iniziano ad appartenermi. Nelle cavità del mio corpo la voce impara a vestirsi, a trasformarsi, da istinto naturale a manifestazione della volontà. Nell’utero materno, il vuoto-pieno per eccellenza, il mondo esterno ci raggiunge solo con i suoni, ora provo io a raggiungerlo. Non posso sapere se questo è un percorso o una sosta, per ora è un possibilità nuova che occupa lo spazio.
Il vuoto ci protegge dal turbino dei pensieri che fanno di una mente occlusa un peso inutile, peggio di una mente vuota.

Foto: Teatro Oscar Pacta - 2 Febbraio 2014

domenica 12 gennaio 2014

L'idea (piccola) di Libertà


Pasticciare avanzi di una festa per tutto un pomeriggio, senza aspettare una vera è propria cena: questa è libertà. 
Vagare di notte, nella strada, nella rete e nei libri, per poi dormire di giorno: questa è libertà.
Mischiare gli ingredienti seguendo solo l'immaginazione di cosa diverrà: questa è libertà.
Sospendere, anche per poco, abitudini, abbigliamenti, orari, sequenze: questa è una (piccola) libertà.
Non conoscendo la Libertà, intendo nel senso più alto possibile, provo a cercarla nel piccolo, sperando che ogni episodio sia la tessera di un mosaico definitivo, e che si possa riconoscerla anche disponendo di pochi pezzi.
Domani torno al lavoro, riuscirò a farlo diventare un pezzo della mia libertà?



foto: L'idea di sedia, gennaio 2013

domenica 8 dicembre 2013

Affinità elettive


L’osservazione distratta spesso coglie, così come perde, strani dettagli. Dico dettagli perché se chiedete ad altri un parere su questi argomenti vi tratteranno come uno stralunato, o comunque uno che ha del tempo da perdere. Notavo il piacevole accostamento visivo che danno i libri e le bottiglie di vino, quello rosso in particolare. Stanno bene vicini, gli uni appoggiati agli altri, anche mischiati. Benché come forma siano differenti, ma anche come contenuto, questi non hanno tratti in comune se non le poche parole scritte sulle etichette. Che nel vino ci siano, o nascano storie, è una bella speculazione ma non vale come spiegazione. Colgo un'immagine di un orizzonte romano fatto da palazzi stretti e alti, intervallati da da maestose cupole. La sensazione che ricevo è quella di calore, di intimità, di un momento di condivisione. Però si legge un libro da soli ma non si beve, quasi mai, del vino in solitudine. Nel dubbio l’ho chiesto ad un’amica che fa sempre del buon viso alle mie strambe uscite e ha risposto una cosa del tipo: è vero, ma è così. Ho cercato di chiederlo ad uno stralunato vero incontrato in un'osteria, sperando che il suo slegarsi dal consueto mi aiutasse, ma ha cambiato bruscamente discorso ignorando la mia domanda. Ora dovrei chiederlo ad un poeta, o una poetessa, forse ad un bambino o una bambina, ad un teologo o una teologa… in pratica a chi guardando la vita da un punto di osservazione differente può cogliere cose che io non posso vedere da qui. Ma chiunque sia, che voglia provare a rispondere, l’unica risposta che non accetto è che questa cosa non sia importante.



Foto: affinità elettive, 8 dicembre 2013

sabato 9 novembre 2013

"Ti amo"



“Ti amo” ha detto, l’ho sentito chiaramente. Glielo ha detto stringendola e lei lo ha guardato un po’ sorpresa, quasi divertita, o forse imbarazzata. Non ci posso credere, non voglio credere che gli abbia detto per la prima volta “Ti amo” in metropolitana. Da come ha reagito lei non sembrava una frase usuale. Veramente avrà sprecato l’incantesimo di quella formula magica nel rumore dei vagoni, nella puzza dei vestiti degli altri, nella pioggia e nella stanchezza del venerdì sera? Io che l’ho detto una volta sola, ancora mi meraviglio di chi lo dice così come direbbe una cosa qualsiasi. In questa nostra razza di spergiuri forse c’è poco da meravigliarsi. Quando lo dissi io, mi guardò come se avessi fatto una battuta stupida e fece uno sbuffo. Da allora non l’ho più detto, l’ho pensato, ma non sono arrivato a dirlo, per lo più per questione di tempo. E’ in fondo una cosa che tengo per me, che custodisco in attesa di consegnarla. Come quei piccoli oggetti che da bambini ritenevamo  amuleti, lo sapevamo benissimo che non valevano niente, però erano importanti. Per me le parole sono importanti e l’aria è densa delle parole che dico e che ascolto, come se fossero tracciate nell’ossigeno. Non è vero che verba volant: restano e pesano. Eppure quella sera io l’ho sentito, forse è scappato fuori, come il respiro trattenuto troppo a lungo. Allora lo capisco che non ce la fai più a tenerlo dentro, che ti scoppia come un singhiozzo. Speriamo solo che lei lo abbia accolto come merita.

Foto: 9 novembre 2013

domenica 3 novembre 2013

Futuro come oggi


Da quando ero piccolo il mondo è molto cambiato, e voglio dirlo ora prima di doverlo dire da vecchio su una panchina del parco ad una badante. Il mondo era, più o meno, diviso in due blocchi politici, economici e sociali. Non era una questione di schieramento, o di dove nascevi, erano proprio due visioni del mondo, due desideri di futuro differenti. La scelta era puramente politica, ma lo era in tutto, anche in come ti vestivi, cosa leggevi, cosa mangiavi, la squadra di calcio per cui tifavi, astronauta o cosmonauta, un po’ come la cantava Gaber in pratica. Chi nasce oggi non può scegliere, si deve prendere la realtà così come è senza modelli alternativi. Certo può immaginarli, inventarli, ma adesso non li ha. Nemmeno allora c’erano, sia chiaro, il blocco sovietico e quello americano erano la brutta (se non spaventosa) caricatura delle realtà che volevano essere, ma almeno entrambi dicevano che un altro futuro era possibile. Anche la piccola politica quotidiana è l'immagine di ciò, della mancanza di progetto, è divenuta un barcamenarsi per stare a galla, non dalla Crisi, ma da parte di una oligarchia che cerca una crisi per giustificarsi. Forse la Storia non è finita, i conflitti pseudoreligiosi e le “potenze emergenti” apriranno nuovi capitoli, ma nessuno mi parla più di futuro. Non dico che nessuno ci chieda di arruolarci per questa o quella campagna, per questa o quella idea, per questa o quella religione, però nessuno ci propone più un futuro alternativo al reale. Certo i movimenti di cambiamento ci sono, ma sono piccoli, sono gruppuscoli eretici nella grande cerimonia del presente. Siamo piombati in un nuovo Medioevo e aspettiamo l’Apocalisse dell’anno 3000? Se la Storia se ne accorge finisce che ci da lei la sveglia.    



Foto: Internazionale1024

lunedì 28 ottobre 2013

Inferno e/o Paradiso


Non è una scelta qualsiasi, ammesso che possa essere una scelta, quella tra Inferno e Paradiso. Sinceramente non ci ho pensato mai più di tanto, almeno prima di imbattermi nel libro di Borges e Casares. La scelta è più che altro quale Paradiso e quale Inferno? Mi sembra un pensiero consolidato in quasi tutte le religioni e morali che l’uomo sia visto come un’anima intrappolata in un corpo e messo nell’esame della Vita. In fondo all’esame ci si imbatte in un esito che per alcuni è il premio o la punizione, per l’altri è un riequilibrio delle ingiustizie. Quelli che superano l’esame o devono essere premiati vanno in Paradiso e gli altri all’Inferno. Escludo dal ragionamento, per semplicità, i vari Purgatorio, Limbo, reincarnazione, e simili. L’inferno è molto simile in tutti i casi: è un luogo generalmente infuocato in cui si è torturati carnalmente per l’eternità. Se la tortura non è "fisica", in alternativa, c’è la tristezza infinità. Il Paradiso può essere un luogo di unione spirituale con la divinità o un luogo di appagamento sensuale, in tutti i casi per l’eternità. Mangiare, bere, rilassarsi, amare è bellissimo in vita,  non credo che potrei sopportarlo per un’eternità senza fine e senza obiettivo. Così come una sofferenza eterna senza remissione o miglioramento mi sembra un’ingiustizia colossale per chi non ha chiesto di partecipare al gioco e per di più con le regole che sono state spiegate in malo modo. Però non so come vorrei che fosse il mio Paradiso, forse lo vorrei come una vita, la mia, questa, indefinita, in cui possa cercare e  migliorare, sbagliare e riparare sempre. Amare, certo, e goderne, ma non confidando in un sempre scontato, ma solo costruito pezzo per pezzo. Un percorso in cui le esperienze si accumulano e cercano nuove esperienze, in cui ci sia sempre la voglia del domani. Anche l’Inferno lo vorrei così, come i miei giorni peggiori,che non vogliono un domani uguale e che ambiscono ad un piccolo Paradiso, e ci provano ad averlo. Forse ogni giorno siamo già in Paradiso, o all’Inferno, ma non abbiamo notato il cartello all’ingresso.



Post: Light Handling - 25 ottobre 2013

venerdì 25 ottobre 2013

Man at work


Io sono quello che si è sempre ritenuto fortunato perché in fondo fa un lavoro che ha scelto, che lo ha sempre gratificato e stimolato. Forse la fortuna non conta più di tanto quando si fanno delle scelte precise e in una direzione netta, però non ho avuto incidenti di percorso che mi hanno fatto deviare, anzi semmai è il contrario e gli incidenti di percorso mi hanno trattenuto sul sentiero che avevo intrapreso. E oggi dopo circa 15 anni di questo lavoro, e molti di più di questa passione, sono qui a chiedermi se ne valga ancora la pena. Non è una crisi di mezza età, ma è un cambio del modo di lavorare e forse una mia minore capacità di sopportare certi stress. Nel mio lavoro il cervello si dedica ad immaginare il comportamento di processi meccanizzati, come nell’alchimia spesso cerca un equilibrio in una formula astratta con una sequenza infinita di tentativi, più spesso come nella magia il linguaggio cerca di plasmare una realtà artificiale e solo il linguaggio la domina ma ne è anche l’unico strumento per intervenire. Ma alla fine di questo lavoro che cosa mi resta tra le mani? Non creato qualche cosa, non ho distribuito un’emozione, non ho salvato vite umane, non ho modificato il destino delle persone, ho solo preso uno stipendio. Ma in cambio ho dato tutto il mio tempo e quello che mi è rimasto è troppo poco per dedicarlo ad altro; i pensieri ansiosi che mi rimangono sono troppo pesanti per essere scacciati dalla mente. Non si ha raggiunto un limite quanto il lavoro ti prende anche i sogni? E quando rende odiosi i desideri? Non è una questione di modo di lavorare o di luogo di lavoro, l’esperienza insegna che spesso, ovunque, è così. E’ la distanza incolmabile tra realtà e desiderio, è quella via di uscita che pensavo di tenere a portata di mano e che oggi è divenuta impraticabile. “Come, Armagheddon! Come!”



Foto: Broken escape - 25 ottobre 2013

venerdì 23 agosto 2013

Raccontabile ma non spiegabile


Sono solo sbarre di ferro arrugginito eppure emozionano, ma perché? Ai Weiwei ha fatto raccogliere i rottami metallici di una scuola crollata per un terremoto durante il quale centinaia di  studenti sono morti. Una volta colto il punto di partenza l’attenzione si sofferma e capiamo che siamo di fronte ad un tributo, ad una protesta, per quella scuola costruita con materiali inadatti e che ci ricorda una dolorosa vicenda anche nostra. Ha fatto raddrizzare i tondini di acciaio e li ha fatti allineare su tre file, in modo che la somma delle lunghezze di tre tondini fossero uguali, poi tutti i pezzi della stessa lunghezza sono stati sovrapposti. Quello che si ottiene è l’immagine di un paesaggio scosso dal sisma, irregolare e ferito. Ma quello che ho sentito subito sono stati i bambini, come se fossero stati allineati in file di tre, per tutte le classi. Hai presente il gioioso baccano di un cortile affollato di una scuola. Questa secondo me è la potenza dell’arte moderna, lo sfuggire alla prima immagine incontrata. Non è la Pietà di Michelangelo che per sempre porterà con se la magia dell’opera umana, non è nemmeno l’irriverenza di un ready-made di Duchamp, ma per alcuni minuti ha avuto in sé tutta pietà e la potenza espressiva che io potevo sentire. Alla Biennale di Venezia ci sono tante opere così, ognuna con una sensazione da scatenare, molte saranno dimenticate o diventeranno un feticcio da collezionisti, altre le ho incontrate come se fossero esperienze vissute. Dal mio punto di vista il massimo sarebbe stato che l’artista avesse martellato personalmente ogni tondino, io credo che nel gesto ci sia un passaggio di sensibilità tra l’uomo e la materia, ovviamente non in senso fisico ma in senso figurato (però potrebbe essere stato fermato da “cause di forza maggiore” come il carcere). Così come credo che tra l’immaginare e l’esporre ci sia un gran lavoro fisico e tecnico, quello che separa la sensibilità propria dell’umano alla creazione propria dell’artista, del divino, se preferite.


mercoledì 14 agosto 2013

Milano ama l'estate



Milano ama l’estate, quella di Agosto, quella intensa, la stessa implacabile del film “Il Sorpasso”. La città è una signora che si distende al sole più caldo  nella propria terrazza, attenta che nessuno la guardi e raccoglie tutti i raggi che può. Quando le chiederanno dove è stata in vacanza racconterà di brevi visite ad amici in celebri luoghi di villeggiatura o butterà lì una meta esotica: un Kenya qualsiasi. Gli anziani che ne percorrono le strade con il loro carrellini della spesa sono piccoli e sparsi come gocce di sudore sulle pelle tesa dell’asfalto. I turisti appollaiati ai bordi della piscina del castello rumoreggiano, come piccioni che tubano sul davanzale stretti al gufo di plastica che dovrebbe scacciarli. La guardano, gli piace, ma non capiscono perché.  Le vetrine sbarrate da cartelli che annunciano brevi ma inevitabili vacanze,  sono come i tuoi pensieri Milano: lontani; mandati a riposare nella testa di qualcun altro. C’è silenzio, ne approfitto per scivolarti accanto, mi allungo per sentire tutto il calore che restituisci. Con calma, con una lentezza che non riconosco mia, ti studio e cerco angoli nuovi che mi sorprendano. C’è solo il Sole come testimone, sbirciando tra i palazzi, crea ombre con cui si può giocare. Provo a catturarle ma non sei tu quella che ho preso, è poco meno dell’immagine di te, come le briciole di un pasto. Nelle vene della metropolitana gli attori del campionario umano spiccano in tutte le pose possibili, non sono più diluiti nella folla e si esibiscono liberi nel loro ruolo. Anche i mendicanti ridono dei passeggeri che improvvisano sguardi vuoti, duri o distratti, in Agosto non possono essere invisibili e rinfacciano la loro esistenza. Nella zona più folta di te, nei parchi, la gente inscena simulazioni di villeggiatura con tanto di costumi e attrezzature; non sono rassegnati ma sorpresi di trovare le vacanze senza allontanarsi da casa, sono sorpresi di usare gli spazi e di non violare nessun divieto. Come sei bella quando ci lasci provare a dirigere l’azione. Sono più svagato quando torno casa, mi hai preso qualcosa e mi hai dato qualcosa d’altro, torno domani, ma se puoi telefonami.

foto: Rosso Improvviso, 10 agosto 2013

mercoledì 19 giugno 2013

Pensieri, opere e accadimenti


Facciamo con calma, ci sono tante cose, tutte importanti che si accavallano per essere dette. Dovrei fare ordine, anche se non mi prendo responsabilità sulla priorità, se non per quella evidente. Parto dal cuore rosa sul portone del palazzo? Oppure vado per ordine? Diciamo che  è finita la pioggia, almeno fino a domani, forse è finita l’anomalia della mancanza di primavera , che forse non ci crede nessuno, ma mi ha condizionato molto. Quando è uscito il sole mi sono sentito come Noè fuggito dall’arca della mia testa, ugualmente affollata di animaletti bizzarri. E’ finita quella sensazione di essere in ritardo su qualche cosa che non si conosce, come certi sogni enigmatici che sanno di caponata. Fabio e Loleta si sono sposati, al centro della loro bellissima storia, felici e dolci come sempre. Il mio più grande pentimento è per le foto non fatte, mai mi perdonerò di averli lasciati ballare di notte in una Murcia di incanto senza imprigionarli, là, sulla piazza bagnata dai netturbini. E il forte sapore dell’amicizia, della vacanza, della maturità ma anche dell’adolescenza che non passa mai. Poi è arrivata Aurora, mai un nome mi è sembrato così augurale per essere la mia prima nipotina. Tutto lineare, quasi perfetto, semplice, come spesso sono le cose intorno a mia sorella. La guardo così piccola e sono confuso tra gli evidenti istinti genetici, affascinanti per la loro precisione e la loro eredità, ma anche dall’immaginare la donna che sarà. Chissà se quella donna è già nel suo sguardo, nel suo modo di stringere i pugni, di fare quei sospiri prima di piangere? Forse bisognerà aspettare il primo sorriso per capirlo. La mia ansia di densità stellare si è poi manifestata in tutta la sua concretezza nel primo incarico fotografico semi professionale. Forse devo ringraziare la crisi se l’ho ottenuto, però è stato bello passare di profilo tra i vincoli e le tecniche. L’estate davanti sembra una spazio vuoto che si possa anche riempire, adesso si lascia guardare. Un po’ come la Roma di Sorrentino, speriamo con molti fenicotteri. Però la stagione mi chiede di rallentare, quando vorrei buttarmi avanti, di dedicarmi ad un ritmo reggae quando il tre quarti picchia da sentirlo nel collo.  La parte di pelle più estesa vicino ai pensieri.



Foto: Pensieri, 19 giugno 2013