domenica 24 aprile 2011

Attraverso lo specchio


Facciamo finta, almeno per una volta, che la risposta ci sia e sia vicina. Ma forse è ancora troppo poco. Facciamo finta, solo per oggi, che la risposta io la veda e, soprattutto, la capisca. Lasciami immaginare che ci sia in un armadio, tra le vecchie valigie, una scatola con dentro ciò che cercavo. Succede che aprendo l’armadio le due ante munite di specchio rimbalza la mia immagine migliaia di volte finché la luce non si disperde completamente; ed è li che mi distraggo perché la mia mente si dimentica della scatola e va a cercare ciò che c’è negli specchi. Solo che nello specchio non c’è né Alice né Carroll , non c’è un mondo inventato ma solo la continua ripetizione della mia immagine. Mi tolgo dalla linea visiva e gli specchi rimbalzano se stessi. Se mi allontano ancora un po’ capisco che forse c’era la risposta ma io guardavo il rimbalzare della domanda. La luce ad ogni rimbalzo perde un poco di energia e alla fine non riesce più a raggiungere né lo specchio di fronte né i nostri occhi, così in fondo ci appare il buio, come se ci fosse una fine nell’infinito. Sicuramente è una metafora, ma non ho aperto la scatola quindi non so di cosa.


foto: Attraverso lo specchio, 23 aprile 2011, Flickr

lunedì 11 aprile 2011

Marrakech


Tutto quello che si dice su Marrakech è vero. Almeno tutto ciò che riguarda il caos, i souq, la piazza e il clima. Questa città nata da un accampamento ha mantenuto un forte sapore di deserto, forse per le strade polverose, forse per la facciate rosa delle case, forse per quel senso di disordine e precarietà. Però se si vuole fare un’esperienza degna dei migliori diari di viaggio si deve entrare in Medina, perdersi nei souq e cercare di ritrovare la strada per casa. I venditori non sono invadenti, lo sono un po’ i ragazzi che si improvvisano guide, tenaci nel chiedere una mancia ma mai aggressivi. Attraversando i souq da nord a sud arriverete alla piazza. Basta questo nome: la piazza, the square, la plaza. Perché tutto succede qui, tutti vengono qui, tutti sono qui, tutte le sere tutta la sera. Si potrebbe stare per ore a guardare la folla muoversi nella piazza, tra le bancarelle e i fumi delle braci, tra i narratori di storie e di prediche, i serpenti, le scimmie e le altre attrazioni. Come quando si guarda il mare: benché sia sempre lo stesso non è mai uguale. La religiosità esposta e pervasiva, la forza della parola sono evidenti in questa città e in questa cultura. Gli abitanti ascoltano incantati i predicatori e i narratori di storie, tutti spremono il massimo che possono dalle parole di tutte le lingue che conoscono. E’ una città che non mi assomiglia, forse è la più lontana da me tra quelle che ho visitato, ma potrebbe intrappolarmi se le lasciassi il tempo di convincermi che tutta quella confusione non fa male ma è il risultato di tanta storia e tanta umanità che cerca di vivere assieme nel migliore modo possibile. Sì forse potrei lasciarmi incatenare in un giardino al profumo di tè alla menta.


foto: La narratrice, Marrakech, 8 Aprile 2011. Le altre sono qui.

domenica 3 aprile 2011

Una Primavera per salvarsi


Facciamo il punto prima che arrivi la Primavera, prima che si presenti con tutte le sue pretese e io non sia pronto nemmeno per negarmi. Oppure facciamo il contrario: mi dimentico di tutto così quando arriverà la primavera potrà cogliermi di sorpresa senza che io possa nascondermi dietro una scusa qualsiasi. Tolti gli impegni lavorativi, che per benedizione in questo periodo se ne stanno confinati nel loro recinto orario, mi trovo a dover affrontare la parte più critica del “progetto casa”, ovvero la scelta dei rivestimenti e dei primi mobili. Di per sé è un’avventura affascinante, intrigante e finalmente concreta visto che fino ad oggi ho considerato il design come qualche cosa che qualcuno faceva e qualcun altro si comprava e si godeva. Il mio rapporto col design è in realtà un discorso noioso che pochi tollerano. Quindi tutto sarebbe stupendo se non si dovesse alla fine pagare, il che rende paradossale tutto il lavoro di ricerca fatto. Per non parlare del fatto che molte decisioni devono essere prese in maniera definitiva e se vengono sbagliate il loro effetto mi perseguiterà per molti anni a venire. Ma la decisione non mi spaventa, fino ad oggi sono e resto convinto delle mie scelte. Però capisco se mai qualcuno, nella storia, si è sposato o fidanzato solo per poter delegare all’altra (o altro) certe scelte. Forse condividerle le alleggerisce? O forse no? In fondo la mia casa è un mio spazio mentale, è la costruzione di una cosa mia, oggi se dovessi pensare a una cosa “nostra” sarebbe tutto differente. Al massimo potrei clonarmi nel sesso opposto. Ma l’accoppiamento di due identici non porta all’annullamento? In ogni caso la mia testa è chiusa in un vincolo gravitante tra sogno e mutuo, tra adesso e domani. Meno male che ci sono gli amici a strapparti dal circolo autistico del proprio pensiero e quella che mi sembrava una bizzarra fuga di tre giorni a Marrakech oggi mi richiama come una salvezza: una porta verso l’aria aperta. Potrei dire un balzo nella primavera, quella delle stagioni e quella della storia del Nord Africa. Sbrigati primavera e fai quello che devi fare.



foto:Montagna di sale di Mimmo Palladino, Milano davanti a Palazzo Reale. Altre qui.

lunedì 21 marzo 2011

Free hugs, on request


Mi piacciono gli abbracci, mi piace farli, mi piace riceverli, mi piace guardarli. Mi piacciono anche se non li faccio mai. L’abbraccio è una cosa difficile, non è il gesto banale da telefilm americano. Si aprono le braccia aumentando il proprio volume apparente, si abbassa una difesa e si offre il petto. Quando i corpi si avvicinano non possono più dirsi estranei, si mischiano le temperature e si possono sentire gli odori. Io abbraccerei in continuazione, anche se non lo faccio mai. Domenica Gionni mi ha salutato accogliendomi con un abbraccio ed è stato bello salutarlo così. Se fosse dipeso dalla mia iniziativa non ci saremmo abbracciati, io non so leggere gli equilibri. Il mio timore di violare lo spazio altrui mi bloccherebbe e dopo tanti anni non so ancora quando si può abbracciare e quando no. Un abbraccio rifiutato o accolto malamente mi allontana per sempre, come un’ustione. Mi serve un codice esplicito, un concordato di vicinanza. Però a volte sì, ma solo quando sono sicuro, quando so che non da fastidio, quando non sembra banale, quando non è prendere ma è dare. Potrei mettere un cartello di istruzioni: Attenzione contatto fisico a crescita esponenziale inversamente alla distanza superata. Una volta nella presa di un abbraccio ho perso tanto, troppo, quella volta l’ustione venne dal vuoto.



foto: Abbraccio al Politecnico, 20 Marzo 2011.

sabato 12 marzo 2011

Ultima birra in Tribù


Mi ricordo che ero con Paolo, che faceva freddo e che c’era un po’ di nebbia. Con qualche difficoltà la trovammo in quel cortile anonimo dietro un piccolo market. La prima persona che mi rivolse la parola fu Claudia che mi chiese “come ci avete trovato?”, io innocentemente gli dissi “ci sono volantini appesi ovunque”, “ah, qualcuno allora li guarda!” concluse. Pensavo fosse un’espressione ironica, ma divenne il leitmotiv per 16 anni. Sono passati 16 anni e in questi giorni chiuderà. Era nata come associazione giovanile, divenne di tutto, tra cui C.S.A. (centro sociale affittato). L’unico suo obiettivo era rigenerarsi, cercando sempre forze nuove, dando risorse a chi aveva idee, cercando di rompere il dualismo “io e la mia tv”. Ci passai 10 anni, quando ancora non c’era il bagno, forse i 10 anni più intensi della mia vita. Io che non ho mai frequentato le compagnie in quel posto trovai una tribù di gente come me, eppure molto diversa da me. Non so elencare le cose che ho imparato, di sicuro la forza del gruppo e il limite del gruppo. Se penso a tutte le persone incontrate, alle parole spese, alle idee buttate e quelle realizzate: mi vengono le vertigini e mi sento vecchio. Quante infinite discussioni, riunioni, organizzazioni; alla fine questo organismo non è più riuscito a rigenerarsi e si è nutrito di sé stesso. Non chiude scomparendo, ma dando azione a l’ultimo articolo del suo statuto quello che quando lo lessi pensai “è solo un’ipotesi messa lì per dovere”. Ciò che l’asta di chiusura non potrà assegnarmi sono le sensazioni vive di tante cose, ciò che non potrà lasciare agli altri è il senso di appartenenza ad una grande tribù, estesa come la gioventù, libera come il sogno.



Foto: "L'ultima, veramente", 11 marzo 2011. Qui le altre.

domenica 6 marzo 2011

Save the clown


Non è tutta colpa di Stephen King se un po’ mi fanno paura i clown, lui ha solo portato al paradosso quella che dovrebbe essere una figura divertente, comica, scaramantica. Non è nemmeno colpa di Heinrich Böll e quella doccia di malinconia che mi ha rovesciato addosso. Forse un po’ per William Shakespeare che li ha messi a scavare fosse o per Jerry Lewis che faceva ridere facendoli piangere. Nel profondo mi inquietano, con le loro facce estreme di maschera greca, ma mi attirano come un piccolo dolore o un pericolo controllato. Li temo perché sono imprevedibili, la loro comicità è rappresentazione totale delle disgrazie della natura umana. Certo recitano, ma lo fanno usando il pubblico. Un clown è colui che si dipinge una maschera sul volto e poi ti rappresenta, è la caricatura di un momento, ma è anche un portatore di verità, una specie di specchio. Il clown, il buffone, doveva colpire a fondo per liberare la risata, ma il colpo doveva essere preciso perché non gli si rivolgesse contro. Era un po’ guerriero, nemico del cortigiano. I cortigiani di oggi sono anche dei buffoni, ma solo perché si ricoprono di ridicolo. Forse il clown sono l’uomo e la donna che si sono liberati, indossando la maschera, dalle convenzioni, dai moralismi; giustificati per ogni eccesso purché portino la maschera. Si stanno estinguendo, tolti dalle strade e dai romanzi, messi nei circhi; stanno scomparendo con tutta la loro riserva. Eppure le persone non sono cambiate, le nostre piccolezze sono le stesse. Rideremo sempre di uno spruzzo d’acqua da un fiore finto, o da un uomo che inciampa nelle proprie scarpe cercando di conquistare l’attenzione di una leggiadra ballerina. Forse stanno scomparendo perché ridiamo meno noi.


foto: un clown modella palloncini in Corso Vittorio Emanuele.

sabato 26 febbraio 2011

Proposta di sogno


Vorrei provare ad esserti da guida in un piccolo viaggio, che forse ricorderai come un sogno, ammesso che tu lo voglia ricordare. Ti porto per le strade della città, fingendo di non essermi perso, ma sarà una menzogna perché mi perdo sempre. Mi perdo perché ogni volta guardo i palazzi, li spiazzi, i dettagli , con occhi nuovi, o almeno ci provo. Speriamo ci sia la nebbia, anche se fosse estate. Mi serve per nascondere la parte bassa dei palazzi, le vetrine, i milioni di negozi di abbigliamento; mi serve anche per creare un po’ di sorpresa perché le cose non ti arrivino tutte assieme. Se avessi tempo per prepararmi ingaggerei dei teatranti, con costumi incredibili per farti vedere come vedo le cose. Di come le persone mi compaiano nella sorpresa prima ancora che agli occhi. Non spaventarti per le mostruosità è solo la loro caratteristica predominante, forse in fondo sono buoni, ma chi se ne frega, tanto io li vedo così. Le fatine zompettanti puoi ignorarle. Anche gli animali pelosi dalle molte zampe, sono veloci, fuggono appena osservati. Nota le provenienze ci sono tutte, con tutte le lingue e le cucine. Forse sto esagerando perché non ci sono auto posteggiate in seconda fila. O forse è già passato il mio esercito punitore? Come nella realtà, anche qui i palazzi sono tutti diversi tra di loro, nota le decorazioni alle pareti, gli androni, i balconcini. Spero che tu abbia colto il grande numero di palazzi dalle facciate curve, senza spigoli, quasi a voler accompagnare le curve della strada o le abbondanze delle piazze. E’ una città tonda questa, se giri un angolo non sai dove potresti spuntare. Ora devo decidere da dove far partire l’esplorazione, se dalla metropolitana del Duomo perché la sua facciata ti appaia subito morbida e maestosa, o dalle villette a schiera di una zona quasi centrale. Sono carine, piccole, colorate, sembrano un gregge di cuccioli tremanti. Magari preferisci partire da fuori città e piano piano assaporare l’attraversamento delle strade circolari, come la discesa negli strati di una torta. Purtroppo è un viaggio che non si può fare in un’uscita sola, immagina questa città come una donna poco espansiva, che non parla di sé se non a piccoli indizi; occorre frequentarla spesso prima di imparare il codice del suo linguaggio.



foto: Manifestazione “Tanti popoli un'unica lotta 2011”, Milano 26 Febbraio 2011, esibizione del gruppo basco. Altre foto della giornata.

lunedì 14 febbraio 2011

Baci di luna piena



Ruotiamo come satelliti sotto la luce del nostro satellite naturale. L’acqua rimbalza tra la Luna e la nostre carni, un legame d’argento che lega gli uomini e le donne, le loro storie, le loro durezze, le tante morbidezze, la femminilità che tutto ricopre. Se non fosse stato per un intuitivo suggerimento di Hannah mi sarei perso qualche cosa di importante. Adesso le sono grato perché un ho debito. La gente fuori dal teatro che cercava i biglietti “a qualunque prezzo” aveva ragione, così come avevano ragione i cento che si sono accaparrati i posti in piedi. Non credo di capire il balletto, e non so se questo sia un balletto, è un teatro che danza. Gli attori ballano, e lo fanno con movimenti che non avrei nemmeno immaginato; ma recitano e lo fanno con tutto il corpo, con la scenografia, con l’uso dello spazio e a volte anche della voce. Ci sono piccoli gesti che mi hanno fatto sussultare sulla poltrona, altri hanno rapito la mia fantasia e sono andati a riposare nella lista dei desideri. Posso solo tentare di descrivere il gesto ma non l’effetto che da l'appoggiare il capo sul ventre di una donna e il suo corpo si avvolge intorno, ed entrambi scivolano a terra in un’unica forma. Il gesto del bacio, ripetuto, martellante, percussivo, non lungo ma molteplice. Enormi rappresentazioni di gesti piccoli, eleganti dialoghi fatti di corpi, che sarebbe bello riuscire a mettere nel discorso di ogni giorno.



Foto: Vollmond di Pina Bausch [Intervallo] - Teatro Strehler - Milano, 13 febbraio 2011

venerdì 11 febbraio 2011

Arimo


Credo di aver bisogno di riposare un poco, di aspettare che il mio corpo riprenda la voglia di camminare. Credo di dover fare le pulizie nel mio cranio, scrostando e sbrinando i pensieri vecchi, per fare spazio a cose nuove. Penso che potrei fermarmi per un po’ e lasciare scappare alcune cose. In fondo posso non essere in certi posti, non vedere certe cose, non fare. Potrei immaginarmi come convalescente: molto riposo e cibi leggeri. C’è sempre il lavoro che si prende molto, ma potrei far finta che sia una specie di terapia riabilitativa, per tenere in funzione le giunture. Solo che ci vorrebbe un posto, un libro e un meteo adeguato. O forse un cane da far correre dietro ad un bastone. Una passeggiata quotidiana in un luogo conosciuto ma sempre differente, come un bosco o un mare. Sarò pronto a ripartire quando me lo diranno i miei sogni, quando nel sonno non vivrò come da sveglio. Quando le storie del riposo saranno a colori forti, senza regole o protagonisti, come se fossero raccontate da una voce esterna che non conosco. Quando la mattina, una volta sveglio, potrò tornare a congratularmi con me stesso per le mie fantasie, invece che analizzare e rimproverarmi le mie incolmabili mancanze.


foto: Naviglio della Martesana, Milano, 6 febbraio 2011

mercoledì 9 febbraio 2011

Paura


Perché non parliamo mai di paure? In fondo è la paura che guida la nostra vita. Anzi la Paura, una in particolare, quella inevitabile, senza nome, quella certa. Ci domina e ci obbliga a valorizzare il tempo, o a goderne, ci spinge verso le religioni o ci allontana da esse. Siamo in galleggiamento nell’acqua che gira nel lavandino verso il foro dello scarico, lo vedi? E’ quello. Quando mi sono accorto che era tutto vero, che sarà tutto vero, mi prese il panico e mi misi ad urlare disperato, avevo circa 12 anni e avevo appena visto le scene iniziali de “I quattro dell’oca selvaggia”. Nel film il gruppo entra in una caserma e uccide con un gas dei militari nel sonno. Mi prese la follia pensando a quei tizi che si erano addormentati pianificando cosa fare domani, alle cose rimandare, a quelle che sarebbero venute, invece... Confesso che a volte la vertigine del panico mi prende ancora, nella notte quando esco da qualche incubo che non riesco mai a ricordare. Tutta colpa dello stress, si dice. E prima o poi riuscirò a strappare in due il cuscino con le mani! In questi casi, dopo la tachicardia c’è solo l’invidia, per chi è certo di non essere solo piccolo istante nel nulla, di non essere fatti della stessa materia di cui è fatto il pensiero, della stessa inesistenza di un lampo di luce. Quando spengo il computer tutto ciò che c’è nella sua memoria scompare nel nulla.


foto: Palasharp Milano, 5 febbraio 2011 (Sono qui)

sabato 29 gennaio 2011

Ossigeno nel giorno del blocco del traffico


Le carezze della musica eseguita da vivo mi conquistano solo quando riescono a far andare lontano le mie fantasie, quando la mia curiosità inizia a frugare nei dettagli, fino sotto i tasti del sassofono. Allora inizio ad esplorare le facce dei musicisti, la minima espressione, sperando di cogliere il godimento, la tensione o qualche altro umano sentire. Rimango rapito dalla serena dimestichezza con cui maneggiano gli strumenti, come se non importasse più la posizione delle mani. Da quel momento non mi sembrano più umani, ma estensioni carnali del loro strumento: tentacoli muscolari chirurgicamente cuciti nel legno e nel ferro. Seguo le mani, immagino la linea dello sguardo, traduco le pieghe della bocca, per rubare un poco di più di ciò che mi regalano le orecchie. Più si entra nella musica più si cerca la musica; più si incontrano le cose conosciute, più queste diventano disgustose. Come deve essere difficile per un musicista ascoltare musica che lo entusiasmi! Riuscirà mai ad accendere la radio? Cercando la musica composta da un uomo chiamato Moondog che viveva tra le strade di New York negli anni 50, rendergli omaggio e aprirci gli occhi. Quando chiusi nella propria casa si sentiamo al sicuro, ventate di aria nuova rinnovano il richiamo e danno un senso al respirare.


Foto: Hobocombo @Leoncavallo 28 gennaio 2011

sabato 22 gennaio 2011

L'uomo senza parole





Le parole si bloccano o si travestono da baccanti umoristiche se cercano di parlare della situazione italiana sia politica che sociale. La rabbia si appallottola in un grumo di saliva che soffoca, allora bisogna lasciarla defluire piano, ridendo, perché non è più tempo di spiegazioni e di ragionamenti. Di fronte a tutto ciò non c’è nulla da analizzare o da capire, se non per scoprire che non è il fondo del pozzo e che c’è già chi sta scavando. La generazione dei nonni ha costruito, quella dei padri ha lasciato che ciò che c’era da finire diventasse libero di distruggere il costruito, la nostra ora deve pagare il prezzo di essere consapevole del declino, la nuova avrà almeno la possibilità di ricominciare senza eredità. Se guardo la fantascienza sorrido, temevamo il disastro nucleare, invece ci troviamo quello sociale, temevamo gli alieni ma covavano il nemico dentro, chiamavamo utopia un progetto e oggi facciamo di tutto per addormentarci e non sognare. Eccolo il postmoderno, l’assenza del desiderio, la mancanza del progetto di un futuro migliore, mentre ci accontentiamo che il domani sia poco meno peggio dell’oggi. Ma tutto ciò perché? Perché lo tolleriamo? Perché aspettiamo che la palla di rabbia nelle nostre gole esploda portandoci a fare cose che poi condanneremo nei libri di storia? Ho sempre pensato che gli U.S.A. fossero un anticipo del nostro presente e che, in un modo o nell’altro, avremmo seguito le loro evoluzioni; ma questa volta non trovo nulla nella storia che non assomigli all’oggi se non ciò che c'era prima della Rivoluzione Francese. Anche se non ci manca la ghigliottina, sento la mancanza di Voltaire, forse anche di un Napoleone, insomma di qualcuno o qualche cosa che incarni un futuro possibile. Non voglio uno scarto di politicante, o un isterico comico, nemmeno un lungo o un tempo, voglio un libro. Un libro da mettere in mezzo al tavolo e lasciarlo crescere, che sia mattone e cemento di un futuro. Non voglio un libro che detti un'indiscutibile verità come una Bibbia, nemmeno un testo che faccia un’analisi scientifica come il Capitale, voglio qualche cosa di più quotidiano. Voglio un cielo grigio sopra un porto che sembri un televisore sintonizzato su un canale morto.




Foto: L’uomo con il megafono, P.B. 22 gennaio 2011

mercoledì 12 gennaio 2011

Fuori tempo




Il tempo cerca di fluire liscio intorno, bruciando le cose e le persone, facendo scadere gli yogurt e le assicurazioni, ma su di me si infrange. Sono come un masso nel mezzo del fiume. In questo devi ammettere che ho vinto io: ho spezzato ogni data. Sono nato nel periodo non previsto, ed è stato solo l’inizio. Da bambino ero già vecchio, o per lo meno un po’ meno giovane di oggi che non so cosa sono. Non ho rispettato nessuna scadenza, benché ci tenga alla puntualità e non mi piaccia far aspettare. Forse ho deluso qualcuno ma non l’ho fatto volontariamente, e forse me ne pento in un caso solo. Se avete un progetto di vita su di me potete buttarlo, non credo che lo rispetterete. Magari parliamone, se riuscite a convincermi farò di tutto per esaudirlo; ma non sedetevi su di una panchina di un qualsiasi parco, di una qualsiasi città, ad aspettarmi perché non passerò. Questo essere fuori dalle agende è un peso, ed se a volte sembra leggero è solo per fortuna, e perché non bado a certe convenzioni sociali. Non è nemmeno una libertà, è solo un modo di vivere ad una altra velocità, non costante.


foto: opera di Loris Cecchini - Wallwave Vibrations (quanta canticum) - 2009 @Fondazione Pomodoro Gennaio 2010

martedì 4 gennaio 2011

Decantercoaster


Si getta il rosso dalla mano, al bicchiere, al vuoto. Si infila e gira nel vortice nel collo. Ogni singola goccia si aggrappa al vetro con unghie di viscosità e urla di panico nella caduta. Ancora più sotto a testa in giù finché la gravità non strappa il fluido dall’alto e lo butta nello stagno placido dell’arrivo. Come il mio sangue, all’improvviso, per ogni cosa nuova, si rimescola come una folla in fuga e, passato l’evento, si placa come se nulla fosse accaduto. Vino rosso coagulato, indifferente, in attesa delle labbra.



foto: decanter, 31 dicembre 2010