domenica 18 novembre 2012

Luoghi


Nella geografia della memoria i ricordi hanno bisogno di luoghi, di posti, di collocazioni nello spazio altrimenti perdono peso e vagano nella fantasia e nell’amnesia. Nella “Bestia della giungla” il protagonista si ricorda di un pomeriggio a Roma, nei Fori Imperiali, una tenda bianca e un temporale. La sua amica, che per anni ha ripensato a quei giorni, lo corregge ricordandogli che si trattava di Napoli e la tenda era la copertura di una barca. Il luogo per eccellenza è la casa, in questo giorno di piccolo raffreddore, l’unica cosa che desiderassi era tornare a casa mia, benché sia tale solo da pochi mesi. E’ come se un pezzo di me fosse legato a questo luogo e lo abbia sacrificato a “casa”. Il crescere assieme lega, oltre ai corpi e alle anime,  anche gli oggetti. Un luogo per eccellenza è il cimitero. Ho uno scarso culto dei morti, non sento il grande bisogno di visitare le tombe e i miei cari li porto nel ricordo. Preferisco visitare i posti in cui hanno vissuto, sperare di intrecciarne una scia, di qualche tipo, a qualunque branca della fisica o della teologia appartenga. Con la visita di San Bernardino alle Ossa l’idea del luogo finale è apparsa con poca creanza. I proprio resti vengono conservati da altri,e usati, magari esposti. Quelle centinaia di teschi vuoti erano persone, non ossa, erano volti, sorrisi, amori, idee, scelte. Erano tanti di me. Questa unicità che è la nostra vita, si è ripetuta nella sua statistica individualità migliaia di volte nella storia e gli atomi di cui siamo fatti sono gli stessi delle comete e dei dinosauri, o degli ingegneri di Ridley Scott. Ho comprato un altro libro sugli alberi, che per la maggior parte,  nascono, vivono e muoiono nello stesso luogo.



Foto: San Bernardino alle Ossa, Milano - 17 Novembre 2012

giovedì 1 novembre 2012

Con cucina


Il ristorante è pronto, i tavoli sono apparecchiati, il cameriere è sull’attenti vicino all’ingresso pronto ad aprire la porta, il cuoco è in cucina, ha già preparato le basi, le pentole scalpitano di vapore e si tiene occupato decorando piatti vuoti. Nessun cliente entra nel ristorante per tutto giorno. La polvere inizia ad appoggiarsi sulle posate e sulle tovaglie bianche, il cameriere legge e rilegge il giornale appoggiato alla casa. Il cuoco ha buttato nell’immondizia ciò che aveva già preparato. Passano i giorni e nessun cliente compare. Il cameriere e il cuoco iniziano a passare le giornate seduti al tavolo centrale con i gomiti appoggiati stancamente. La cucina è vuota e silenziosa. Le uniformi sono trascurate e i tavoli sanno di abbandono. Nessuno entra dalla porta con le tendine. Se qualcuno entrasse ora si spaventerebbe dalla trascuratezza del posto, il menù sarebbe vecchio, le pietanze banali e forse il servizio scontroso. Nessuno sa perché i clienti ignorino questo posto, forse la posizione, forse la zona, forse il nome sbagliato, o forse solo sfortuna. Nessuno lo sa, chi lo sa non lo dice e il ristorante precipita nelle ragnatele degli angoli dimenticati della città.

Foto: Amleto per cena.

venerdì 19 ottobre 2012

Apologia della minestra


Avrei voluto prendere il telefono e dire una cosa del tipo “ciao, nulla, è che mi sento triste come una minestra...” Molte persone associano la minestra a qualche cosa di triste, di invernale, di malaticcio. Io non trovo che sia un piatto triste ma mi adeguo, si sa che le metafore sono fatte per gli altri. Io la minestra la trovo simpatica: è leggera, saporita se la sai fare e colorata. Inoltre se cucinata lentamente ti riempie la casa del profumo di verdura e di attesa, il giorno dopo è meno piacevole però al momento mi ricorda qualche cosa di caldo. Sabato scorso non ero affatto triste, mi sono cucinato una minestra e ho guardato un film di Godard. Immagino che a qualcuno ciò possa apparire tragico, ma ero veramente sereno. Da qualche giorno lo sono meno, anzi non lo sono affatto: il freddo si sente. Ho un ragù congelato e penso che lo userò per vestire gli spaghetti di un bel rosso profumato, abbinato a quello nel bicchiere, sperando di trovare un pensiero rosso da seguire nella serata. Ma come dice Ferdinando Bruni quando interpreta Rothko “rosso? rosso come?”


foto: Minestra
 

sabato 6 ottobre 2012

Di muro e muri


Non posso immaginare, né voglio scoprire, come nascono le mie ossessioni, ma un volta esaudite mi piace gustarne la sensazione aromatica che lasciano. Quando vidi questo muro rimasi attratto da un qualche cosa di indefinito, forse il grigio, forse il fiammeggiante e freddo neon al centro, forse le migliaia di piccole imperfezioni del cemento. Subito mi sono detto che lo dovevo fotografare, che dovevo portarmi via quella sensazione. Il continuare a rimandare questa piccola cosa mi torturava come la più grave mancanza, come un senso di colpa corrosivo. Ogni mattina e ogni sera, per mesi, mi sono soffermato a guardarlo ma mai ho scattato una foto. Oggi finalmente l’ho fatto. Il risultato non è stato quello sperato, per limiti miei, di capacità e di attrezzatura. Così alla ricerca della soddisfazione ho scoperto un mio limite e guarda caso è un muro. Io che ho sempre usato la metafora del muro per indicare un punto che non potevo raggiungere, così come il suo abbattimento per parlare di un obiettivo raggiunto, oggi mi trovo davanti ad un muro-limite vero. I momenti peggiori li ho sempre immaginati come deserti di marmo bianco e liscio e piccoli muri grigi sparse all’orizzonte che nascondevano qualche cosa da raggiungere. La foto di per se non mi dispiace, ma non è quella che immaginavo, non è quella che avrei stampato e appeso ad un altro muro. Non ha il dettaglio, il contrasto che il muro vero possiede. Magari un giorno ci riproverò quando avrò nuove idee, magari nuovi strumenti, per il momento ho solo aperto l’assalto ad  un altro muro che è rimasto in piedi, ma trema, perché sa di essere sotto assedio.
 

foto: Grey wall - 6 ottobre 2012

lunedì 24 settembre 2012

Un'ora di luce


Tanto per saltare da un’universo ad un altro senza scomodare la fisica mi sono dedicato a dieci giorni di cinema, l’occasione è stata seguire, fotografandolo, il Milano Film Festival. Diciamo che ho giocato a fare il reporter dilettante ma caparbio. Adesso che ci penso molte cose le faccio così, ma questa è materia per altre reflessioni che il cielo autunnale mi invita a rimandare.  Così ho visto tanti film, alcuni molto belli, alcuni entusiasmanti, diversi già dimenticati, un paio talmente brutti che non riuscirò mai a scordarli. In realtà mi è piaciuto sentire raccontare il mondo del cinema dalle voci dei registi, e ad essere sincero, mi è piaciuto sentire confermare da loro la mia visione del cinema: un po’ romantico, un po’ nostalgico. Ho sentito come una responsabilità l’invito a “fare cinema”, come se fosse una cosa da niente. Però è stato bello essere immersi in una folla eterogenea, che più diversa di così non si può, tutta protesa a respirare la luce che rimbalza dallo schermo. Un’apnea collettiva nelle immagini e nei suoni che toglie al tempo il suo protagonismo. Tutto intorno c’erano un mucchio di cose belle tra cui  la settimana della moda, il Festival MiTo, che hanno diviso Milano in settori che, sciocchezze a parte, fa dispiacere perdersi. C’era cinema ovunque. Al MiTo ho visto un meraviglioso Chaplin orchestrato dal vivo e l’associazione Scheggia ha regalo un film coreano da urlo. Ora devo mettere in ordine le sensazioni raccolte, sfoltirne le ridondanze e vedere se qualche cosa germoglia. Non che io voglia coprire la calvizia con le delle foglie: Elio insegna che potrebbe essere molto pericoloso.

Foto: Milano Film Festival 2012 - Parco Sempione

sabato 25 agosto 2012

La quarta parete oltre la buca

Di tutto ciò che posso pensare completo, profondo e umano, poco regge il confronto con il teatro. Non c’è finzione che tenga, nemmeno se la scenografia è complessa e tecnologica, non c’è virtualizzazione o effetto speciale che regga il passo con l’attore che recita. Oltre la pittura, la poesia, l’arte in generale, di tutto quello che si può creare il teatro è forse la forma di narrazione più completa. Certo se voglio imprigionare un paesaggio scatto una foto, e anche qui ci sarebbe molto da dire, però se devo raccontare un storia io immagino il teatro. Tutto parte dall’avere una storia da raccontare, vera o inventata, scritta o improvvisata, da fare propria. L’attore la mangia, la mastica, la inghiotte e la fa diventare fibra del proprio corpo. Poi si cerca il posto adatto, che sia una sala o un prato, un palco o un parcheggio, perché lo spazio possa contribuire nella rappresentazione. Si mettono i pezzi di scenografia che mancano, le luci e i contributi sonori. Poi c’è il pubblico, perché la storia esiste solo se c’è qualcuno a cui raccontarla. A questo punto l’attore, o la compagnia di attori, si prende tutto lo spazio e il tempo per raccontare la storia. Non solo la loro voce, ma il corpo, il movimento, l’interazione diventano parte della narrazione e ogni gesto rafforza e sostiene le parole, se parole ce ne sono.  Forse anche per questo mi fanno paura gli attori, un po’ perché si trasformano, un po’ perché assorbono il mondo che gli sta attorno e interagiscono usando se stessi completamente. Il loro strumento di lavoro sono loro stessi, generosamente impiegano il loro corpo e si plasmano per diventare racconto.


foto: Dallo spettacolo “Le meccaniche dell’anima” - Compagnia Opera Liquida - Carroponte 24 agosto 2012

martedì 31 luglio 2012

Carta d'identità a volumi


Traslocare una libreria, anzi i libri, da una casa ad un’altra non è come spostare un armadio o un letto. Non puoi riempire le scatole, trasportarle, per svuotarle sui nuovi scaffali. La vecchia libreria era molto grande e aveva i ripiani con i libri in doppia fila, tripla se contiamo quelli rovesciati sopra; anche quella nuova potrebbe, ma non voglio più che mi sfuggano alla vista libri che ho amato. Quindi ho fatto passare uno per uno i volumi e credo di aver speso almeno un pensiero per ognuno. Di alcuni mi si illuminano i brani, di altri le emozioni che mi hanno provocato, oppure il ricordo di chi me lo ha regalato o consigliato. Molti sono rimasti nel vecchio scaffale, porto con me solo quelli che non riesco a lasciare, quelli che vorrei riprendere in mano e quelli di cui voglio essere sicuro della presenza. Ora vorrei organizzarli per argomenti o per salti logici tutti miei, però lo spazio è un vincolo rigido e di legno. Sarebbe bello che uno sconosciuto entrando in casa  e osservando le coste dei volumi decida con lucida consapevolezza se darsela a gambe o sedersi sul divano e iniziare una lunga chiaccherata. Il mio esibizionismo indiretto passa anche da qui, dal mio spazio, come se un pezzo del mio codice genetico fosse stampato e impilato in uno scaffale. Una specie di fotografia a caratteri tipografici degli ultimi miei dieci anni e un pezzo di quelli prima.
Ho lasciato molto spazio ai libri che verranno, sarebbe un errore tattico averla già riempita, però magari una più piccola in altra stanza potrebbe fare da rifugio secondario. La nuova libreria resterà vuota a metà per un po’, in modo da assomigliarmi del tutto.

foto: New bookshelf, Luglio 2012