sabato 28 ottobre 2017

Arte Ribelle



Come una tempesta chiusa in un bicchiere tappato dal palmo di una mano. Purtroppo anestetizzata, catalogata, esposta, de-localizzata, solo come una mostra, o una ricerca, possono fare. E’ comoda la storia srotolata e ordinata in una stanza, invece che sparsa nelle pieghe di istanti non ben documentati.
Forse è colpa del contesto, troppe banche e istituzioni per non far pensare alla belva in gabbia durante un cocktail party a bordo piscina. Ma non importa, gli sconfitti diventano schiavi e vengono portati in corteo come tesoro di guerra.
Mi chiedo se invece sia ancora possibile un’arte così? Così come? Così esplicita, così didascalica, così affannata nel cercare la via per portare un messaggio sovversivo direttamente al cervello, o al cuore.
Altrimenti, se l’assenza del contesto e dell’assenza di una diffusa convinzione di un’idea la renda inutile, per non dire invisibile, per non dire ridicola. Eppure non sono le figurine del “Milanese imbruttito”, nemmeno una vignetta di Biani o un meme qualsiasi costruito nella cultura social-tv americana e diffuso nel mondo per premio di maggioranza mediatico.
Com’era vivere quel costruire sperando, cercando, facendo?



Foto: un particolare di un’opera di Nanni Balestrini e dell’allestimento. Milano, 28 Ottobre 2017, Galleria Gruppo Credito Valtellinese

sabato 7 ottobre 2017

La terapia del dolore

Meglio cosa di questo nulla? Ad un certo punto mi sono accorto che preferirei provare dolore. Un dolore scelto, selezionato come una razza canina, puro come una droga svizzera, somministrato per bisogno come il Malox. Non il dolore della malattia e nemmeno quello della morte vicina. Rivoglio il dolore della negazione, della mia specifica esclusione dalla tua vita, se non posso riavere il dolore di un morso o delle unghie nella pelle in un momento di gioia folle.
Rivoglio almeno un dolore da far consolare, da poter raccontare ubriaco a degli sconosciuti. 
Ma non questo nulla. Non posso vivere anestetizzato come come un centro storico di notte: vissuto solo dai netturbini. Mi sto accontentando di un amico che mi cerca con proposte che fanno piacere solo a lui. Mi accontento di essere utile in qualche modo, mentre vorrei essere superfluo e cercato solo per ciò che sono. “Vieni più vicino”.


Foto: Camogli, Luglio 2017

lunedì 1 maggio 2017

Invito al mio viaggio



L’idea sarebbe che questo improvviso cambio di programma ci ha regalato una giornata. Ti vengo a prendere, ma copriti che piove. No, non portare l’ombrello che ci intralcia, basta un cappuccio, al massimo ci bagnamo un po’ correndo. Che ne dici di una una mostra, da percorrere in silenzio ognuno con un proprio percorso, per poi ritrovarci alla fine e parlare tanto di ciò che ci è piaciuto. Magari ci vediamo al negozio del museo a ridere di gadget. Potremmo percorrere tutti i portici, correndo mano nella mano dove piove. Scendiamo sotto la Rinascente a bere il caffè come i turisti e a guardare cose che non compreremo mai. Possiamo baciarci sulle scale mobili, lo sai che è una mia fissa. Possiamo anche vagare lenti davanti alle vetrine più famose ripetendoci in continuazione che gli abiti sono tutti uguali, come uniformi, alla faccia del libero mercato. Vaghiamo così tanto per stancarci; così quando sei stanca in metropolitana ti puoi appoggiare alla mia spalla, mentre ti bacio piano piano, pianissimo, il collo. Torniamo da me e ci togliamo le  giacche, e tutto il resto. Non ti restituisco più, non ti riporto più a casa, lo prometto. E’ una bella idea? Sì? Allora perché ti ho scritto solamente “Buone feste”.
Lo sai che nel Qoelet, nel capitolo 3, non c’è scritto che esita un tempo per pentirsi e un tempo per perdonare. E’ l’unica cosa che ho imparato.


domenica 26 febbraio 2017

Cerchiamo di inventare un gioco nuovo


Inventiamo un gioco che non sia la metafora della guerra, dove non si debba annientare o umiliare l’avversario. Facciamo che non sia la trasposizione di una battuta di caccia, il contendere una preda con un branco o con un singolo campione. Non si deve giocare da soli, nemmeno uno contro l’altro, possono giocare più squadre o giocatori singoli contemporaneamente. Devi poter giocare anche se non vuoi stare in una squadra, oppure facciamo che il numero di componenti di una squadra non conti, valgono anche le squadre assenti. Facciamo che non ci sono ruoli o parti da interpretare. Che se ci sono delle regole le diciamo subito oppure tutti le dobbiamo scoprire durante. Magari se le scopriamo, nel mentre, fermiamoci un attimo a parlarne. Facciamo che lo scopo del gioco non è vincere, ma l’orgasmo della vittoria sia spalmato per tutta la durata del gioco indipendentemente dal risultato. Deve essere un gioco in cui ognuno ci mette del suo, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche. Non ci si iscrive, ci si trova la e si gioca. Lo vogliamo un arbitro? Non lo so, però se c’è ha sempre ragione lui e se sbaglia è implicitamente un giocatore. Facciamo che un gioco così non potrà mai esistere, oppure se esiste, dovete dirmi come si chiama e perché non ci avete mai fatto giocare.


foto: Let's invent a new game

giovedì 16 febbraio 2017

Chiamata ai poeti



Quanti poeti ci sono intorno a me? Quanti si fermano senza fiato trafitti da un raggio di luce che rimbalza in modo imprevisto? Quanti ammutoliscono per aver visto un dettaglio che gli ha toccato una corda profonda e se ne portano dentro le vibrazioni per ore?
Uno sguardo rubato per strada? Un saluto dal tono sbagliato? La coincidenza di un pensiero, di un incontro e di una scritta sul muro vi imprigionano?
Sappiate che il mondo è vostro, dicono, ma lo state lasciando in mano a chi non ha tatto, a chi lo guarda come se guardasse il proprio riflesso nei vetri della metropolitana, soltanto per non guardare. Sappiate che avete un tesoro che non potete donare, che malamente sapete raccontare. La consapevolezza vi renderà ricchi, ma solo per potervi donare.


martedì 4 ottobre 2016

Compasso


Ho ascoltato il vento che mi parlava di me, diceva ciò che non volevo sentire. Forse non era il vento ma un amico dietro una birra. Ho cambiato le vele per spostarmi lentamente tra i flutti quotidiani, lasciando che i porti lontani si avvicinassero senza sorprendermi. Ho rinunciato alla gioia improvvisa, quella col sapore del vino forte, ma mi sono liberato dai sorsi amari.
Mi sono seduto, dove forse Socrate aveva pisciato di nascosto un pomeriggio, e ho sentito il giro delle vite stringente come un abbraccio.
Ho frugato nelle probabilità mettendo la mano nel gorgo di ciò che non conosco sperando in un colpo fortunato. L’ho ritirata cinico, deridendo il mio tentativo infantile.
Ogni mattina mi chiedo “come stai?” , forse te lo chiedo, forse glielo chiedo. Ma per favore non rispondete tutti assieme.
Ho avvistato qualche cosa, viro nella sua direzione, sperando sia un’isola o una balena, forse un detrito galleggiante.
Avevano ragione Baudelaire e Pavese.



Foto: Stillness, 21 Agosto 2016

domenica 22 maggio 2016

Meglio



Meglio percosso come i tasti di un pianoforte da un musicista infuriato, che dimenticato come un violino in un solaio mai frequentato.
Meglio ubriaco, sotto il sole, tra sconosciuti di un'altra lingua che ti dicono grazie per ogni cosa, che tra amici che ti dicono grazie per ciò che dovrai dare.
Meglio con il mal di piedi per il tropo camminare, che immobile ad immaginarsi camminante.
Meglio incazzato con i mali del mondo, che illuso della loro origine.
Meglio il brivido creativo che si rinnova, che la sazietà di una sola opera ammirata.
Meglio adesso, che ieri, anche se non tutti gli ieri.
Meglio il mio magazzino pieno di sogni, che tutti i magazzini con i sogni in vendita.
Meglio vedere i propri limiti, che non apprezzare il contorno delle cose.
Meglio la polvere tra le pagine, che non vedere il non scritto.
Meglio capire la violenza di un aborigeno, la saggezza di una bambina filippina, la nobiltà di uomo delle isole, che non capire tutti quelli che mi stanno intorno.
Meglio il mio peggio oggi, del mio peggio di ieri, ma non del mio meglio, che per quel che vale, sarà sempre mio.


Foto: bright pink band - 21 Maggio 2016

domenica 20 marzo 2016

Ta bom


C'è probabilmente un eterno conflitto tra il viaggiatore e il turista, non solo perché il "viaggiatore odia l'estate" del turista, forse per un sapore di un possibile non ritorno che il turista non conosce. Non importa, non sceglierò un lato della disputa ma rimarrò a pensare che ogni volta, prima di un viaggio, la sensazione più forte che provo è quella che mi spingerebbe a rinunciare alla partenza. Poi mi ringrazio per non averlo fatto, ogni volta, ogni destinazione, indipendentemente dalla distanza, la metà o la compagnia. Ho deciso che posso viaggiare da solo, ma ci sono persone con cui viaggiare è più bello. Così in Brasile ho imparato l'accoglienza senza peso e l'abbraccio come saluto. A Montevideo che il Sud America non è il Sud America, che ogni volta che una cosa si semplifica con un aggettivo, quello è sempre sbagliato o almeno insufficiente. A Buenos Aires ho imparato tante cose: che posso ancora commuovermi alle lacrime incontrando le Madres di Plaza de Mayo, che non posso vivere in una città dove dei bambini dormono per strada e che la gente può applaudire qualsiasi cosa. A Iguazù mi sono ricordato di essere piccolo. Nel frattempo ho imparato a viaggiare in autobus, i nomi di frutti che nemmeno immaginavo potessero esistere, che ciò che qui è un'emergenza in un altro posto può essere la normalità, che i politici sono percepiti ovunque allo stesso modo, anche i tassisti. Non ho imparato ad accontentarmi, non ho visto la Croce del Sud, non mi sono ancora bagnato nel Pacifico, il Brasile che ho visto non è il Brasile a detta dei brasiliani. E' passato un po' troppo tempo dal mio ritorno a questo post; nel frattempo mi sono goduto, e smaltito, gli effetti benefici della mia assenza e ora cullo la voglia di ripartire.


sabato 2 gennaio 2016

Il segreto


Il segreto ha spesso la stessa forma del suo contenitore anche se non ha la sua stessa materia. Il segreto, anche se senza corpo, può essere talmente pesante da portare, che chi lo nasconde ne manifesta la presenza con la sola postura. Il segreto è un colpo di tosse trattenuto. Il segreto può essere nascosto sempre a tutti i sensi tranne uno, su sei. Il segreto spesso consiste nell’effetto che causerà ciò che si nasconde. Il segreto può essere conosciuto da tanti, ma resta tale, se ne nessuno ne può parlare. Il segreto resta più segreto se a goderne può essere uno solo. Il segreto parla lo stesso linguaggio di chi lo cerca, non di chi lo nasconde. Il segreto ha un valore intrinseco, proporzionale e indivisibile secondo la sua segretezza. Il segreto ha effetti sconosciuti che lo relegano a segreto. Il segreto è contagioso. Il segreto rimane tale finché non è perfettamente conosciuto dal suo custode. Il mio segreto è così effimero che basterebbe poco a farlo decadere a banalità.

foto: Il Segreto.

venerdì 11 dicembre 2015

In punta di matita

Pavese scrisse di quanto è difficile costruirsi su sé stessi, ogni volta, dopo ogni caduta, dopo ogni mancanza scoperta e divenuta insostenibile. Ed è difficile prendere il fardello di delusioni che avevamo fatto finta di dimenticare e rimetterselo davanti agli occhi, frugarci dentro, come in un vecchio baule abbandonato in solaio. Si tirano fuori cose che a prima vista sono nuove ma poi ti investe  quel ricordo, spesso amaro. Come se si misurasse la distanza tra il reale e il desiderato passando la lingua su un immenso limone. Affrontare il limite non basta, nemmeno, una brava e comprensiva insegnante finalmente trovata, è sufficiente, serve un tocco divino che compensi una lacuna nella propria creazione. Ad ogni passo c’è un inciampo e un livido, ma è  indescrivibile la dolcezza di un piccolo successo. Così resto incantato a guardarmi fuori da me, sulle sudate carte, felice di vedermi nuovamente appassionato. Alla fine del sentiero troverò un altro pezzo che cercavo da usare in qualche modo e strada facendo imparerò a tracciare mappe, questa volta da conservare. Così quella sera avrò qualche cosa da raccontarti, da mostrarti, che non siano le solite cicatrici.


Foto: Disegno numero 1. 10 dicembre 2015

sabato 17 ottobre 2015

Sole da mangiare


Dopo una settimana di pioggia grigia, caduta a piccole gocce dispettose, una giornata di sole va mangiata. Va inghiottita e messa dentro al torace. L’unico posto chiuso frequentabile è il negozio di colori di Brera; poi subito via, verso il Parco. Così che ti ritrovi in un attimo su una panchina, il sole caldo seduto vicino, le famiglie che passeggiano, le ragazze che corrono, un sax lontano che suona. Non vado nemmeno a cercarlo, non voglio vederlo, mi piace immaginare che sia una musica che venga da fuori quadro come una colonna sonora. Resto li e mangio autunno. Il libro che ho con me è un Erri De Luca, quello condannato da chi sa leggere la legge ma non la capisce. E’ un libro di strade iniziate, come i segni che indicano i sentieri in montagna. Dalle prime pagine prendo un nome Menahem Zemba e una frase “Gli insorti del ghetto cercavano di mettere in salvo i poeti, gli scrittori. Così fanno gli alberi circondati dalle fiamme: scaraventano lontano i loro semi.”. Ho mangiato ma non sono sazio, ma ho assaggiato la serenità e ora devo cucinarmela.

Foto: Al parco, 17 Ottobre 2015

venerdì 11 settembre 2015

Il cielo è indifferente


Il cielo è indifferente.
Quando indifferenti sono gli uomini, allora li giudichiamo ingiusti.
Come dovremmo giudicare ora questo cielo?



Foto: Agosto 2015

mercoledì 15 luglio 2015

Portatemi al mare

Due ragazze in metropolitana si danno istruzioni, con voce calma, sulle borse, i vestiti e le creme che porteranno nella loro comune vacanza. Così, all’improvviso, avrei potuto dire “Portatemi con voi!”. Andiamo assieme verso quel mare, vestiti il meno possibili, finché la morale lo consente. Restiamo distesi sulla spiaggia calda, sulla sabbia dura, con il sole che ci brucia la pelle e che cerca di infilarsi sotto le palpebre. Restiamo immobile per far bruciare la pelle, con in nostri tre corpi accostati, vicini fino a sentirne il calore e l’odore di crema solare. I bambini correranno spargendoci addosso la sabbia, noi sorrideremo, tre volte; alla quarta ci chiederemo dove sono i loro genitori e perché non si prendono cura dei loro figli. Potremo fare il bagno, dove goffamente cercherei di nuotare mentre voi chine nell’acqua poco lontano dal bagnasciuga vi immergerete immobili fino al collo e fino alla prossima onda. In quel momento vi concedo di ammirare gli altri uomini dal fisico scolpito da una ginnastica adolescenziale e da una genetica benevola. Mi immagino il frastuono dei rumori, dei gridolini, delle musiche lontane, degli aeroplani con le code pubblicitarie, delle onde contro i corpi dei bagnanti corpulenti che si fanno scoglio con la schiena. Passeggeremo lungo la lingua umida della sabbia compatta scavalcando castelli in costruzione e calpestando, fingendo distrazione, quelli sguarniti. Le conchiglie giocherebbero a bucarci la pelle dei piedi, mentre l’acqua simula una carezza scavando la sabbia sotto il nostro peso. Potremmo andare avanti così, per l’infinito, in uno stolto assolato presente decerebrandoci di nulla, di mare e di caldo. Potreste anche innamoravi di me, ma in quel momento saremmo già alla fermata dopo e le porte aprendosi farebbero fuoriuscire la spiaggia da questo vagone e dal mio vagare.


foto: Was here, 2012

sabato 4 luglio 2015

Intra moenia


Era il suo primo pensiero del mattino e, spesso, l’ultimo della sera. Fissava l’alta e spelacchiata siepe che lo separava la piccolo giardino del vicino e pensava che un muro sarebbe stato meglio.
Un muro non molto alto, un paio di metri, di mattoni rossi come la casa con un elegante bordo di granito in cima. Sarebbe stato più riservato, più intimo, più separato dal quella chiassosa famiglia con quel bambino urlante e quella griglia puzzolente sempre in funzione. Non avrebbe più visto il disordine di quel giardino a dir poco abbandonato, quel muso di topo del loro cane infilarsi nella siepe per minacciare la sua proprietà. Ma se quel muro l’ossessionava, l’altro lo faceva impazzire. Era la parete che separava il suo ripostiglio dalla camera da letto dell’altra famiglia di vicini, una coppia con due bambini e un simpatico cagnone. Non lo avrebbe mai confessato, nemmeno sotto tortura, ma aveva passato delle ore appoggiato a quella parete ascoltando la loro vita. Si metteva quasi seduto, appoggiando il sedere sullo scaffale nel poco spazio libero, le mani contro la porta e l’orecchio al muro. Poteva sentire le loro discussioni, i capricci dei bambini, l’abbaiare festoso di Koki. Assorbiva tutto, immaginava tutto e avrebbe voluto urlare la sua opinione di osservatore imparziale e indubbiamente saggio. Incontrando l’uomo della coppia per strada a volte avrebbe voluto fermarlo durante il saluto, buttare la qualche frase e parlando d’altro dargli la propria opinione, così per fargli capire che su di lui poteva contare. Qualche volta, di giorno o di notte, li aveva anche senti far l’amore e un orgasmo mentale aveva travolto anche lui nell’apice della partecipazione più intima. Più volte aveva cercato di architettare un modo per assottigliare quella parete, ad esempio grattandone via un po’ per volta il cemento, ma non ne aveva avuto il coraggio. Stava pensando di approfittare della loro partenza per le vacanze estive (quanto gli sarebbero mancati!) per forare in modo millimetrico il muro, non per spiarli, non sia mai, ma per respirare un po’ della loro aria. Come quel profumo intenso di carne alla brace, vigoroso e famigliare, ma no, forse no, quell’odoraccio arrivava dagli altri vicini.

Foto: Berlino, memoriale dell'Olocausto, 2007