domenica 4 settembre 2011

Fiori d’acqua sbocciati sul ferro


Ed eccola la prima vera pioggia di fine estate, definitiva come un “a capo”. Ma nulla cambia, il ciclo persiste. Così dopo un sabato passato sonnecchiando e una notte insonne avvelenata da malinconici pensieri cerco di rubare ad una domenica di pioggia un po’ di vita. Gratto due parole dai pochi amici incontrati per strada, frugo nei giornali e nella rete qualche idea che mi permetta di dissetare l’animale. Scaccio il rumore della pioggia con il rumore dell’otturatore, e magicamente scaccia anche i pensieri. Respiriamo in sincronia, prima io, poi lui. E ci credo che dentro quell’immagine si fermi un momento, adesso anche il video manda odore di pioggia. Così sono contento.



foto: rain flower (4), progetto pioggia, settembre 2011

martedì 23 agosto 2011

Venezia e il tempo


Non è stato facile superare la prima impressione ma poi ho capito perché Venezia mi imprigiona. Non tanto per i vicoli incantevoli, spesso deserti, tra antichi palazzi e luci timide. Non tanto per i canali che tagliano il passo come venti improvvisi. Non certo per il turismo. Nemmeno per il mare vicino o per il clima. Venezia ha due dimensioni: la prima è quella di città da visitare, da consumare, da raccontare condendo di dettagli romantici e buffi aneddoti sulle gondole, la seconda è più intima e si chiude in una mano. Se ti fermi un po’ di più e lasci che si racconti, alla fine si arrotolerà come un gatto e potrai prenderla nel palmo di una mano. Potrai camminarla, non senza fatica, ma con gusto e le strette vie diventeranno domestiche. Le osterie saranno rifugi ospitali e i canali non ti taglieranno più la strada. Ciò che a Venezia non c’è è il tempo, che si è dovuto fermare, non per incantarla in un passato remoto, ma in un eterno presente di resistenza. E’ il suo carattere e non permette a nessuno di scorrerla veloce e distratta, né in bicicletta né in automobile. Chi vuole consumarla in un giorno viene relegato ai margini dove si incanterà a gustare dal vivo il già visto e se ne andrà con il dubbio di essersi perso qualche cosa. Gli incantati , come me, si struggeranno per sempre nel desiderio di raccontarla e paura di essere banali, ma non potranno resistere. Forse Venezia non vuole ospitarti, vorrebbe adottarti per sempre.



foto: Vik Muniz, Untitled, Biennale di Venezia Esposizione Internazionale d'Arte 2011. Qui le altre su Venezia e la Biennale.

giovedì 11 agosto 2011

La legge dell'Universo


Io ci credo fermamente che esista una legge della natura che spieghi tutto e me la immagino come un concetto facile quasi ovvio. Deve esistere una legge che sappia descrivere il tutto, l’energia, l’interazione delle particelle, delle masse e dei pensieri. Secondo me è proprio sotto i nostri occhi ma non la riconosciamo. Ogni mattina c’è un uomo alla fermata della metropolitana che resta fermo in piedi nel corridoio con le mani protese e ripete un mantra costante “un pezzo di pane”. Pochissime variazioni, se non nel tono e nel ritmo, ma sempre la stessa frase in modo quasi alienato. Nelle mani non ha nulla, resta così immobile e parlante. Chissà se le variazioni di quella voce dipendono solo da cause interne, come l’umore o la stanchezza, vicine come il clima o il numero di viaggiatori, oppure anche lontanissime come l’indice della borsa di Hong Kong o l’ora di apertura di un piccolo bar di Caracas il giorno della festa del patrono? E se quell’uomo fosse il centro dell’universo? Se la sua voce fosse l’impulso che guida l’espansione dell’Universo? Potrebbe essere in questo posto da sempre, dall’alba della Terra, ma nessuno lo ha mai notato: messo in campo visivo periferico come un qualunque mendicante. Cosa succederebbe se tutto partisse da lui? Se lui fosse la sorgente della creazione e dell’esistere? Ma anche se così fosse, che la sua voce spinge l’Universo, finché c’è un uomo che mendica, l’Universo potrà anche espandersi ma non andrà da nessuna parte.



foto: Emilio Isgrò, Libro cancellato / The erased book, 1964, Museo del '900, Milano

lunedì 8 agosto 2011

Le stelle cadenti non lasciano cicatrici


In fondo siamo tutti sotto lo stesso cielo e guardandolo, possiamo immaginare, di comunicare come attraverso una rete che non richieda interfacce. Non bisogna guardare troppo lontano ma solo dove le nuvole attirano lo sguardo. E’ il nostro tetto domestico e siamo tutti figli di un padre impietoso che non ci concede consolazione, non ci lascia tregua. Non ci porge una mano carezzevole con dentro una felicità che si possa costruire e coltivare, ma affonda anche quelli che lo venerano nel nostro stesso nulla, a volte in dolori che non si riescono a raccontare. Tutti uguali nel presente ma distinti da un futuro personale ipotetico. Amleto temeva i sogni eterni più del suo presente, Ofelia temette di più il presente. Mi piace immaginare che i pensieri rivolti al cielo impattino contro la volta e rimanendo attaccati scivolino lungo di essa fino ad una mente in ascolto da qualche parte del globo. Come un radioamatore annoiato che giocherelli con le frequenze. Forse dovrei chieder prima scusa ai riceventi: come sempre mi sembra che ogni cosa pensata e poi detta diventi banale; scritta non vale più di un party con personaggi di cartone. Oppure mi piace insultare la Luna che tante ne ha viste, e da testimone muta si è limitata a passeggiare tra i pensieri in scorrimento senza donare un solo istante della propria maturità. Altro che missile in un occhio! Arriveranno gli americano, o i cinesi, a scavarti come una miniera galleggiante e ci ricorderemo di te solo come un cantiere dimenticato, con i vecchietti in tuta spaziale a commentare i lavori. Venerdì sera ho scoperto che in autunno uscirà l’I-phone nuovo e sarà “una figata”, mi è dispiaciuto non saper vomitare a comando.



foto: finto cielo su vero Fontana riflesso nel Museo del '900.

lunedì 1 agosto 2011

Rapporto


Non conosco la data astrale, conosco appena quella attuale e locale, spero basti. Vorrei presentare rapporto spontaneo sull’andamento della missione. Punto primo: ho capito che si tratta di una missione, altrimenti non potrebbe essere. Da quando sono stato mandato qui ho imparato molte cose e sono pronto a riferirle. Le ho immagazzinate tutte nel mio cervello, potete prelevarle quando volete. Per favore poi rimettete tutto a posto, magari a com’era prima della missione. E riportatemi a casa. Le informazioni che troverete sono divise in due parti, la prima è di tipo esperienziale e la seconda sono conclusioni logiche che cercano di dare un senso alle esperienze. Credo di aver capito diverse cose che ci permetteranno di abbattere l’ipotesi che gli abitanti del pianeta agiscano secondo leggi caotiche. In realtà il loro pensiero e la loro azione sembrano essere guidati da leggi molto semplici, poco più che istintive, generalmente basate sul massimo profitto immediato. Questa propensione è facilmente leggibile quando le scelte molteplici sono esplicite, altre volte è più occulta. Le decisioni anche se meditate vengono concluse dal fattore tempo, come se ogni essere umano non potesse attendere per sempre un evento ma debba ad un certo punto risolverlo con una scelta immediata, illogicamente improvvisa. Apparentemente sembrano non ricordarsi delle scelte precedenti, e anche se poco efficaci o dannose, le reiterino con convinzione. Ciò non è dovuto ad un limite fisico ma ad una sorta di speranza. Ciò che rende efficace la persistenza di queste entità è la capacità di adattamento, anche morale, una sorta di accettazione del massimo profitto immediato nonostante tutto. Credo che questo possa esserci utile per le valutazioni successive: si tratta di una condizione non rimediabile. Punto secondo: credo che la mia missione sia finita. Non ho ricevuto alcuna istruzione, ma presumo che mi veniate a prendere. Presumo, o come si dice localmente, spero. Passo e attendo.


foto: We are ready - Luglio 2011

martedì 28 giugno 2011

C'è un cartello che protegge le aiuole dai cani che sanno leggere


Vorrei un caleidoscopio che mischiasse le parole, che confondesse i sensi e da ogni sillaba potesse estrarre un universo. Vorrei che centrifugasse la semantica per estrarne quel liquido che solo alcuni poeti hanno assaggiato. Di tutte le parole che cadrebbero dal vortice a Terra, prenderei una sola sillaba e come uno studioso medioevale la userei come chiave per aprire il mondo. Se un poeta può essere rapito dal cartello appeso in un cesso, io voglio impazzire per cercare il senso di una parola sola. Ma non esiste un codice che descrive la realtà, nemmeno un gene, nemmeno un meme, nemmeno uno scosciare di caratteri verdi luminescenti su sfondo nero. Da qualche parte c’è un eremita, vestito di un cappotto comprato a rate, che bergonzona un modo di dire e lo usa come linguaggio universale. In una stanza arida di originalità c’è un genio che cerca una rima con una parola deformata dall’uso comune, e quando la troverà potrà rivelarla solo alla banchina deserta della metropolitana. C’è una donna che sta per partorire e intanto pensa ad un algoritmo che metta senso alle parole scritte in tutto il mondo, e si sente le doglie, ma non sono per il nascituro umano. Eppure sembra che nel pianeta riecheggi una lingua comune, come prima di Babele, come i versi incomprensibili degli apostoli, qualche cosa che è nell’umanità stessa. Se smettessimo di volerci far capire forse ci capiremmo. Ma non tu, tu parla, dannazione parla!



foto: Camminando su una poesia di Pessoa, opera di azt "Grandes sao os desertos, e tudo é deserto", Milano 2011

giovedì 23 giugno 2011

Ruvido, secco, tagliente


E’ una dinamica che odio, che devo scrivere per provare a levarmela di dosso. E’ come un pezzo di ritornello che ti si ficca in testa e continua picchiare, che cerca di attirare la tua attenzione, di portarti ad un ricordo, ad un momento particolare, ma tu ti opponi. Succede allora che ti svegli una mattina, sereno, con ancora un residuo di sogno tra gli occhi, che lavi via sotto la doccia. E nel lento avvio del mattino la tua mente segue pensieri simili a desideri, li dispone in ordine su un filo logico e li mastica, inghiottendoli con il caffè. Sono praticamente sogni, ma costruiti dalla volontà la stessa volontà che ad un certo punto ti tradisce. Va tutto bene, poi la storia prende una piega improvvisa, si arrotola, si ribalta e brucia. Fa male, proprio come un’ustione. E l’odore di bruciato ti si attacca addosso e ti avvelena il giorno, una fantasia diventa una cataratta che cambia anche il colore della luce. Puoi sputare rabbia quanto vuoi, arrabbiarti per un parcheggio, maledire la metropolitana, odiare l’ascensore, calpestare la posta elettronica, ma ogni violenza non ti ti distrarrà da quel finale impresso nella testa. Di peggio c’è solo sezionare razionalmente il fallimento del desiderio che ha creato la storia e sapere che è vero, inevitabile, sentirlo come una minaccia estesa quanto il cielo a cui non puoi sfuggire.


foto: Nails, Gunther Uecker "Struttura tattile rotante", Roma 2011