Vorrei un caleidoscopio che mischiasse le parole, che confondesse i sensi e da ogni sillaba potesse estrarre un universo. Vorrei che centrifugasse la semantica per estrarne quel liquido che solo alcuni poeti hanno assaggiato. Di tutte le parole che cadrebbero dal vortice a Terra, prenderei una sola sillaba e come uno studioso medioevale la userei come chiave per aprire il mondo. Se un poeta può essere rapito dal cartello appeso in un cesso, io voglio impazzire per cercare il senso di una parola sola. Ma non esiste un codice che descrive la realtà, nemmeno un gene, nemmeno un meme, nemmeno uno scosciare di caratteri verdi luminescenti su sfondo nero. Da qualche parte c’è un eremita, vestito di un cappotto comprato a rate, che bergonzona un modo di dire e lo usa come linguaggio universale. In una stanza arida di originalità c’è un genio che cerca una rima con una parola deformata dall’uso comune, e quando la troverà potrà rivelarla solo alla banchina deserta della metropolitana. C’è una donna che sta per partorire e intanto pensa ad un algoritmo che metta senso alle parole scritte in tutto il mondo, e si sente le doglie, ma non sono per il nascituro umano. Eppure sembra che nel pianeta riecheggi una lingua comune, come prima di Babele, come i versi incomprensibili degli apostoli, qualche cosa che è nell’umanità stessa. Se smettessimo di volerci far capire forse ci capiremmo. Ma non tu, tu parla, dannazione parla!
foto: Camminando su una poesia di Pessoa, opera di azt "Grandes sao os desertos, e tudo é deserto", Milano 2011