lunedì 4 febbraio 2019

Il primo e ultimo re




Dopo la visione del film di Matteo Rovere e dell’interessante ricostruzione storica dell’epoca  più che della mitica vicenda, penso che ci si possa atteggiare come dopo un film d’azione molto violento oppure come davanti ad un suggerimento o una metafora. Ovviamente scelgo la seconda ed è una possibilità che non mi aspettavo. I protagonisti e le comparse vivono in un ambiente estremamente ostile dominato dalle forze della natura, dalla violenza del più forte e dalla religione. Ovviamente le tre condizioni si riducono subito a due perché le forze della natura vengono lette come manifestazioni del divino. I due fratelli incarnano allora le due visioni della sopravvivenza e dello sviluppo: Remo punta a fondare una civiltà basata sulla forza e la paura, Romolo è devoto e sottomesso agli dei. La storia, non solo il film, ci insegna che Roma sarà entrambe le cose: una potenza militare che si espande senza pietà e una protettrice delle divinità, nel numero più ampio possibile e valorizzate in base al beneficio che apparentemente porteranno all’impero. Il cristianesimo è stato osteggiato anche perché pretendeva il suo dio come unico e non come un dio tra i molti. La vita ai tempi dei gemelli fondatori era molto dura ma a parte le comodità moderne mi pervade la sensazione che ancora oggi siamo dominati da religione e paura. Se tralasciamo quando coincidono, la paura domina nei regimi autoritari e militari, la religione in quelli democratici. Nelle nazioni democratiche si delega ad una ritualità e ad una sacralità l’organizzazione della società, ci sono i riti come le elezioni, i sacerdoti come i burocrati, le vestali come i politici e vari guardiani dell’ordine. Una prima evidente differenza è che le vestali alimentavano il fuoco a prezzo delle loro vite, i nostri politici non danno questo forte valore al simbolo del divino, ovvero il voto nel nostro caso. Ma la democrazia, come la religione, può essere messa da parte se c’è la necessità di agire con forza e scatenare una guerra. L’altra spaventosa similitudine è la divisione in tribù, siano esse su base etnica o politica. Mi chiedo quanto questo bisogno di appartenere ad un gruppo ben definito sia un retaggio culturale o umanamente biologico. Mi chiedo quanto questo gruppo si possa allargare partendo dal clan familiare ad un intero continente se non a tutto il  globo. Eppure anche nelle città più multiculturali la formazioni di enclavi, di ghetti, di aree “specializzate” è sempre presente. La prima osservazione è che esse sono legate alle condizioni sociali ed economiche, ovvero stiamo sempre parlando di poveri o poco più, però spesso sono condizioni migliori delle equivalenti nei paesi di origine storica. Oppure è più desiderabile vivere da individui ricchi tra ricchi oppure in un gruppo di poveri ma molto simili? Oppure la ricchezza costituisce tribù a sé?
Quindi siano Plutarco, Sofocle o Shakespeare possiamo sempre leggere parte del nostro presente nelle storia del passato, come se tutto il progresso che passa dal fuoco di scintille all’energia atomica, l’uomo sia scivolato nel tempo portando incolumi le sue strutture mentali. Lo sviluppo del cervello e della cultura ha prodotto tonnellate di carte piene di buoni propositi che vanno però applicate allo stesso uomo che sacrificava la vita di altri uomini alle divinità, possibilmente non della propria tribù.



Foto: Celti 4/6 - elaborata

venerdì 28 dicembre 2018

Universo


Tra il grande e il piccolo la differenza così come l’assegnazione sono relative. Sono i loro superlativi che fanno chiudere un ipotetico e semplificatorio cerchio in cui il grande e il piccolo si sovrappongono. Il nostro cervello nella sua necessità di controllare ciò che ci circonda per difenderci dai pericoli modella le immagini in modo famigliare, ma poi esistono strane coincidenze. Che il modello atomico basato su un nucleo e delle particelle che girino attorno sia un sistema solare in miniatura è una delle rappresentazioni più affascinanti della terra. C’è bastato poco per superarla e la similitudine Cosmo - atomo si è schiantata contro il muro della fisica quantistica. Le particelle atomiche sono piccolissime e noi siamo piccolissimi soltanto guardando la nostra galassia. Siamo maledettamente piccoli, persi e fragili; aggrappati ad una  zolla lanciata ad una velocità pazzesca nel vuoto. Ci dobbiamo guardare  piedi per non avere paura. Non so se ha ragione Gurdjieff e la nostra mutilazione del “kundabuffer” ci obbliga a vivere in questo stato di inquietudine, oppure occorre pensare ad Adams e al suo “vortice di prospettiva totale”, immaginarcelo dentro noi pronto a ricordarci la nostra dimensione infinitesimale e precaria. Così guardando il piccolo ci accorgiamo che la nostra quotidianità non è che una rappresentazione di un mondo invisibile le cui leggi non sono nemmeno rappresentabili mentalmente e non hanno nulla a che vedere con la nostra esperienza. Il grande invece ci schiaccia e ci parla di quotidianità eterne rispetto alla nostra e forse di altri modi di vivere lontani e paralleli a noi. Ci servirebbe un dio che ogni tanto venga a tranquillizzarci e incoraggiarci della nostra minuscola presenza nel suo colossale marchingegno. Non ci serve di certo un dio distaccato che guarda la nostra pallina rotolare sapendo già dove cadrà e non considerando i piccoli cuori palpitanti che l’abitano. In fondo, anche le cavie di laboratorio ogni tanto vengono accarezzate.



Foto: A travel - Carlos Silva - Agoo  - 1965 (detail) Malba - Buenos Aires

giovedì 27 dicembre 2018

Il deserto


Il deserto io lo conosco bene: ci ho abitato. Non importa dove vivo o dove ho vissuto, il deserto me lo portavo dietro. Non pensare al deserto delle emozioni, delle relazioni o dei valori morali, geograficamente era più simile al deserto sabbioso del cinema. Il deserto prima di tutto è un spazio ampio, senza confine se non l’orizzonte. E’ quindi un posto da cui non si può facilmente uscire, non ci sono strade o sentieri, forse ci puoi trovare delle  direzioni, ma imprecise. Sul deserto il sole compie un arco e ciò complica ancora di più l’orientamento. Il paesaggio è costante anche quando è mobile, o meglio, se si muove si riconfigura in un modo comunque già visto, o che ti sembra tale. Puoi stare sulla sabbia, sulla roccia, sull’erba gialla, sull’acqua, sempre deserto è. Nel deserto non dovresti incontrare nessuno di vivo, tranne animali pericolosi, umani compresi. E’ chiaro che è un posto da evitare ma come tutti i posti pericolosi ci attira potentemente; la nostra mente ha bisogno di una pagina bianca per disegnare, senza appigli che semplifichino il finale del percorso. In questi spazi aperti possiamo immaginare tutto ma cercheremo sempre un riparo, un persona assente, un tesoro o una città perduta. Il deserto è come quello stato intermedio della pelle che dopo una bruciatura tende a guarire, ma lascia sempre un alone del segno della ferita, una pelle differente di tipo diversa da quella che la circonda. Il mio deserto era particolare: tutto bianco, come se fosse di marmo, ma non freddo quasi tiepido. Era molto silenzioso, ma non c’erano echi o la pressione del vuoto sui timpani; come se qualcuno si fosse dimenticato di accendere l’audio durante la proiezione di un film. Era piano e liscio, ma attraversarlo era faticoso come andare in salita, come camminare con l’acqua sopra al ginocchio. Era molto personale, tanto da non riuscire a mostrarlo a quelli vicino a me, ancora oggi mi è difficile descriverlo. Non ci vivo più da un po’ ma me lo porto dietro; non vorrei mai usarlo come rifugio ma sento che all’improvviso potrebbe risucchiarmi. Allora lo scrivo qui così saprai dove trovarmi.


Foto: Sittin' on the dock on the bay Aprile 2017

venerdì 21 dicembre 2018

L'uomo con le ossa di vetro


C’è un posto dove abita un uomo con le ossa di vetro e si può ben capire che tipo di vita faccia. Ogni piccolo incidente, ogni istantanea sfortuna, può essere per lui la rovina. Qualcuno dice che sia un fuoriuscito da un film di JP. Jeunet ma ciò non è importante.
Eppure quest’uomo vive una vita normale: esce di casa la mattina e usa i mezzi pubblici, lavora a contatto di altre persone, esce con gli amici, va alle feste. Ovviamente presta molta attenzione a chi gli sta intorno, ai distratti, a chi parla sbracciando, ai marciapiedi dissestati, agli spigoli dei tavoli e dei comodini, alle porte automatiche, alle inaugurazioni dei centri commerciali. Negli anni si è procurato molte fratture, ma che tutto sommato si rimarginano velocemente, alcune però gli fanno ancora male e spesso scricchiolano rievocando l’incidente che le ha generate.
Nei momenti di silenzio, oltre al suo respiro, se gli state molto vicino potete sentire un rumore di cucchiaini che toccano leggermente un bicchiere di cristallo: sono i ricordi dolorosi delle sue fratture.
A volte senza urti, senza incidenti, senza apparentemente motivo qualche cosa si rompe dentro di lui e l’uomo risuona come un disco di Mike Oldfield ed una vampata di dolore lo invade. Quindi gli capita  nel mezzo di un gesto normale di fermarsi congelato quasi fulminato. La vampata dopo qualche minuto, a volte qualche mezz’ora, passa ma lascia in lui la rinnovata consapevolezza della sua fragilità, anch’essa molto dolorosa.
Per una sorte bizzarra la gioia non emette rumore, ma sono certo che sotto la pelle le sue ossa si illuminano di luce bianca, come un lampo al fosforo in un film in bianco e nero.
Sono tanti i suoi momenti di gioia  ed è per questo che l’uomo dalle ossa di vetro non rinuncia al dolore, sa benissimo che ciò che per gli altri è un piccolo fastidio per lui può essere un grande dolore , ma ciò che per gli altri è un piccola gioia per lui è un orgasmo di luce. 



Foto: Christmas Nest, PB 2018

giovedì 22 novembre 2018

Il posto degli indovini


Non esiste un equilibrio tra legge e dovere. La legge, sia essa frutto di un profondo ragionamento, di un processo storico o di un capriccio dispotico è per sua natura ineccepibile. E’ solidamente statica nel suo dispositivo grammaticale e agisce, nei modi e nei tempi che descrive,  quando le condizioni che esse stessa prevedono la fanno innescare. Ci sono le attenuanti ma sono descritte per legge e non possono invertirne il senso. C’è il dovere che agisce secondo una legge morale, o etica, collettiva o individuale. Al dovere e alla legge si può disobbedire grazie al consiglio dei saggi o degli indovini, dipende dalle epoche e dalle letterature. Antigone non poteva obbedire alla legge e lasciar marcire il cadavere del fratello sotto le beccate degli uccelli. Il disposto di Creonte secondo cui il corpo del traditore non dovesse aver sepoltura, per lei decadeva di fronte ad un comando che arrivava dal passato, dagli avi, da un non codificato messaggio insito nei valori familiari. 
Creonte non si mosse a pietà e volle mantenere salda la sua legge per non sembrare debole di fronte al popolo e non far vacillare l’autorità: se la legge viene manipolata a piacere il legislatore non è più credibile, perché non è più il punitore; nella punizione sta il senso della legge. L’oracolo lo convinse a cambiare idea perché la sventura del suo atto era evidente nelle sue arti. Antigone forte della sua missione morale non accetta l’eterna prigionia e si uccide, accecata dall’idea della inevitabilità della morte per aver violato la legge degli uomini (benché abbia rispettato quella degli dei). Antigone non ha oracoli che la consiglino ma ha la storia e il mito di Danae che condanna dal padre (su previsione di un oracolo) alla prigionia in una torre per non avere figli viene fecondata da Zeus. Se avesse atteso sarebbe stata salvata dal pentimento di Creonte e forse dall’azione del figlio del re, Emone.
Creone ricorre all’oracolo per sentirsi dire ciò che nella sua coscienza già sa e che può leggere negli occhi dei tebani, nonché ascoltare nei consigli di chi gli è vicino.
Edipo ricorre all’oracolo di Delfi per trovare il modo per liberare la città dalla sofferenza e ricorre all’oracolo Tiresia cieco per scoprire la verità sull’assassinio del re precedente. Tutta la storia di Edipo è legata agli oracoli. Suo padre lo fece abbandonare perché l’oracolo aveva previsto che sarebbe morto per mano del figlio, quando Edipo scopre la morte di chi pensava fosse suo padre , crede di aver sconfitto la previsione. Ma il suo vero padre era già stato ucciso da lui anni prima. L’oracolo gettò sulle spalle di Edipo un vaticinio appiccicoso, ma se Edipo avesse potuto conoscerlo prima dell’incidente col padre avrebbe potuto evitarlo? Di fatto si esiliò per evitare di uccidere chi pensava fosse suo padre ma non rinunciò a portare con sé la violenza con cui ha ucciso il suo vero padre. Edipo cieco diventa un oracolo e fa previsioni sui figli maschi, sul re di Colono, ma non sulle figlie. Sarà il figlio a chiedere alla sorella una degna sepoltura in caso di sua morte, perché le legge era chiara. Edipo si acceca per non dover più guardare il mondo e i suoi famigliari nemmeno nell’Ade, si obbliga a guardare dentro di sé e così diventa un indovino. Il nostro destino se è scritto è scritto dentro di noi, non nel genoma, ma nella storia delle nostre azioni che solo noi conosciamo, nel fondo del buio che fa tanta paura.



Foto: Stones, Agosto 2018

martedì 13 novembre 2018

Le “meraviglie” del 2000


Emilio Salgari scrisse “Le meraviglie del duemila” nel 1907 immaginandosi due uomini americani che grazie ad un antico liquido si siano addormentati per 100 anni risvegliandosi nel secolo successivo. Questo romanzo è considerato un precursore della fantascienza italiana, ma si sà che la fantascienza scienza non è , anzi spesso è usata per parlare più del presente che  del futuro. Certo è affascinante cercare ciò che Salgari ha indovinato o previsto e fa tenerezza una certa fiducia nel progresso tecnologico fatto di elettricità, acciaio e gigantismo. Se dovessi indovinare da questo libro cosa pensasse Salgari del suo tempo però ne avrei quasi ribrezzo. La società ideale dell’autore è molto  più vicina ad un incubo che a un desiderio utopico. Sembra che il destino dell’umanità sia “vivere e lavorare in tranquillità” poiché grazie all'elettricità non solo la locomozione e la produzione in generale sono facilitate, ma anche gli uomini si muovono più velocemente per via degli ambienti elettrizzati. Il pianeta ormai è iperpopolato (meno dell’attuale) e ogni foresta è stata eliminata per coltivare la terra; il legno del resto non serve più, come ogni combustibile fossile, a parte il radium: fonte di luce e di calore infinite. La popolazione dominante è quella europea-americana che ha dominato il mondo , mentre eschimesi e nativi americani sono quasi scomparsi a causa della loro non accettazione del progresso. I cinesi hanno rischiato di scomparire per fame e li abbiamo salvati per un pelo. Nel romanzo c’è un solo negro e ovviamente è un servo. Ci sono i ricchi e i poveri, perché come sottolinea l’autore, così è sempre stato. Solo che i ricchi mangiano a tavola con piatti serviti automaticamente dai ristoranti, mentre i poveri (quelli che devono sbrigarsi a mangiare per andare a lavorare) inghiottono pastiglie tipo astronauti. 
La bella  notizia è che Marte è popolato e che i “martiani” possono comunicare con noi, la brutta è che sono molto “brutti”, o buffi secondo i punti di vista. I governi hanno abolito la guerra per non distruggersi (siamo nel 1907) e agiscono come coordinatori del progresso, assicurando i carcerati in prigioni sottomarine e gli anarchici al Polo Nord, in modo che si raffreddino gli animi.
Dei socialisti si fa cenno alla loro estinzione per inutilità o per noia, poiché la Russia è una repubblica e la Siberia uno stato a parte. L’Europa ha perso i grandi imperi ed è nata la Polonia. Su tutti vige il tribunale dell’Aia. L’Italia ha riconquistato Istria, Dalmazia, Nizza e Corsica. 
Che cosa resta della società futura di Salgari,a parte gli esili e le stragi di ribelli ? Una società dedicata al lavoro e che non ha possibilità di progresso ulteriore se non colonizzando lo spazio. Il nostro Emilio non parla di arte, di letteratura, di musica, come se fossero ornamenti di una civiltà preistorica. Non parla di religione né di spiritualità. Ci confeziona città di grattacieli e macchine volanti , atmosfere elettriche e una morale rigida di lavoro e accettazione del presente. Si fa venire un dubbio solo nelle ultime due righe: una società così forse è solo destinata ad impazzire? 
Quanto avrei voglia di vedere questo mondo tra cento anni, ma temo che sarebbe cambiato poco da oggi. Certo nuove scoperte sconvolgerebbero la mia concezione del quotidiano ma che fine avranno fatto i sette miliardi di abitanti? Nessuna nuova guerra planetaria?  Lo spazio sarebbe a portata di mano? I genitori registrerebbero i figli su Facebook alla nascita? E i loro nomi inizieranno per “#”? Non è possibile, il nostro è un piccolo presente per essere base di un futuro a lungo termine. Se è vero meglio così: si può ancora fare qualche cosa! Al limite ci si vede al Polo Nord.


Foto: Quadrisfera -  Museo Casa Cervi - Gattatico (RE)

sabato 27 ottobre 2018

Il tempo sospeso prima del bacio



I visi degli amanti si fronteggiano scambiandosi di messaggi inviati con la sola forza della telepatia e di qualche micro muscolo che contribuisce a impercettibili alterazioni dello sguardo.
Pochissima aria passa nello spazio tra le punte dei due nasi e una tale vicinanza porterà sicuramente ad un bacio. Ma il bacio non arriva, si rimane nel tempo sospeso che anticipa il bacio. Schioccherà sicuramente, all’improvviso, perchè non potrà più essere trattenuto; mentre le labbra dall’altra parte saranno pronte ad accoglierlo in un millesimo di secondo. Ma intanto il bacio non c’è, c’è invece un’attesa non ansiosa, c’è quel flusso di messaggi che riempie lo spazio. Le pupille oscillano da destra a sinistra per mettere a fuoco gli occhi amati, uno per volta, ma subito è necessario passare all’altro. Il sorriso è profondo, incarnato nella faccia, le labbra cambiano assetto frequentemente, confuse tra il sorridere e il dover baciare. E’ un tempo senza ritmo, una sospensione del tutto, anche delle regole e dei ruoli. Non importa chi farà partire il bacio, non importa quando. L’attesa non è data né dall’orgoglio né dalla timidezza, ma dalle tante cose che riempiono quello spazio e che viaggiano sul flusso dello sguardo e del pensiero. Ma ecco! Il bacio!







Foto : Maria Martins - O impossivel - 1945

mercoledì 4 luglio 2018

Il posto dove vivo



Perché mi segui nel mio vagabondare di cacciatore di momenti, di collegamenti e di simboli?
Non ti nascondere tra le ombre ed evita di travestirti da cespuglio: che a Milano balza subito all’occhio. 
Puoi seguirmi restando dietro pochi passi, tanto non scappo, non voglio nascondere il luogo dove abito.
E’ dove vorrei abitare appoggiando il cuore per sempre , quello stanco ma non arreso. La forma è 
perfetta per nascondere il volto, appoggiando prima la fronte, lasciando scivolare le labbra e poi la 
guancia. Scelgo la guancia destra, il modo che la curva del naso coincida con la forma del collo.
Da quel punto si gode una vista incredibile, perché ora ci credo. Vedo tutto il mio presente sospeso
 in un continuo di felicità. Vedo il mio passato archiviato, come in prescrizione;  anche le cicatrici
 le posso accarezzare distrattamente: non bruciano più, o bruciano poco.
Ammiro il futuro: basta sbirciare lungo la valle che da sulla schiena e so che da qualche parte c’è
 un momento di amore intenso e gioiosa fatica. Tutto intorno è pace e battito ritmico di cuori, lievi 
respiri e qualche bacio.
Vivrei lì per sempre, senza metafore, senza bisogno di altro.




Foto: the place where i live, luglio 2018

mercoledì 23 maggio 2018

Fuori dal bosco


All’improvviso fu una luce accecante che gli esplose in faccia segnando un passaggio dal buio del bosco al sole più arrogante. Ci vollero un po’ di respiri per rendersi conto che il paesaggio era cambiato, che davanti aveva una pianura morbida vezzosamente adornata di colline. Si voltò a guardare il bosco, fitto, nero, e non negò a se stesso la tentazione di tornare dentro in quel mondo ostile, ma che conosceva bene, che per tutta la vita aveva abitato. La schiena era ancora nel freddo dell’ombra, il petto cuoceva nel sole, era tagliato in due dal timore di non toccare nulla , di commettere l’ovvio gesto sbagliato che condanna al lungo pentimento. Restare immobili non ci salva dall’errore, ci toglie la responsabilità di agire delegando il potere alla paura: alla fine resta comunque il pentimento. Ma il sole gli andò incontro benevolo e deciso.
Lasciò cadere lo zaino ma non si sedette a terra, si limitò a guardare il panorama, a mangiarlo per metterselo dentro nello stomaco. Se pochi secondi fà la sorpresa lo voleva ricacciare nel bosco ora aveva paura di tornarci, temeva che tutto questo fosse un sogno. Il bosco era dietro e sembrava allontanarsi, ritirarsi nel passato, per entrarci ora avrebbe dovuto inseguirlo correndo. Intorno non c’era traccia di altre fitte boscaglie, di sentieri arrampicati sulle coste delle montagne sempre sotto la pioggia; c’era solo il prato morbido, il sole e il cielo punteggiato di nuvole con un ruolo strettamente decorativo. In passato il bosco gli aveva concesso delle tregue, degli sprazzi di sole che sembravano la giusta libertà, ma poi si era richiuso imprigionandolo di nuovo.
Nel lungo vagare inseguendo le luci nella folta boscaglia aveva inventato il suo sentiero non avendo tracce che lo aiutassero; camminando e inciampando aveva tanto sognato il mondo fuori dal bosco e ne aveva fatto un progetto ben definito nella sua mente. Il disegno del mondo “come  avrebbe dovuto essere” era descritto in ogni dettaglio e adesso quel mondo era davanti ai suoi occhi. Non era l’emozione a dare questa illusione, era l’erba che si muoveva nella brezza esattamente come lui aveva immaginato si muovesse, così il ruscello faceva il giusto rumore e la temperatura sulla pelle era perfetta. Poteva essere solo un sogno se la perfezione del desiderio non esiste nel mondo. Il bosco allora era un posto più sicuro perché nella tragicità del dolore c’è la certezza del reale, della vita. Il sogno è la vita sospesa, è il cuore che si prende una pausa e chiede al cervello di cantargli una canzone. Ma il sogno, ammesso fosse un sogno, continuava; allora tanto valeva la pena di prendere lo zaino e attraversarlo, di gustarselo fino in fondo questo sogno, tanto al risveglio ci sarà tempo per bestemmiare nuovamente il dio carceriere. Si infilò uno stelo d’erba tra le labbra, si sorprese per il sapore che incredibilmente già conosceva e si avviò verso una valle tra due colline dal profilo dolce, dove il tramonto appoggiandosi sembra disegnasse un sorriso di benvenuto.


foto: In/Out

martedì 5 dicembre 2017

Durante e dopo il dolore


Cosa resta del dolore? Di tutta questa tua sofferenza, quella che ora ti possiede? Quando sarà passata che segni lascerà? Quante persone nel tempo di leggere queste righe, stanno urlando straziati oppure sono muti, soffocati, da una sofferenza profonda?
Solo il dolore ritratto dagli artisti, nemmeno dai cronisti, riesce a scolpirsi nella materia e diventare comune. Ci servirà per condividere, ci servirà per ricordare, anche quando i giorni del dolore saranno lontani. Ma non serve per imparare, l’opera colloca la sofferenza nel passato o nella distanza. Ci duole di più una piccola sconfitta in una partita di calcio che un genocidio lontano. Il dolore non si può rappresentare, in fondo, non si può nemmeno raccontare.
Forse si dovrebbe cercare di rappresentare il conforto, la sommatoria di tanti dolori diversi: grande vero gesto di umanità.



Foto: dettaglio dell’allestimento dell’opera di Enrico Baj “I funerali dell’anarchico Pinelli” - Fondazione Marconi

sabato 28 ottobre 2017

Arte Ribelle



Come una tempesta chiusa in un bicchiere tappato dal palmo di una mano. Purtroppo anestetizzata, catalogata, esposta, de-localizzata, solo come una mostra, o una ricerca, possono fare. E’ comoda la storia srotolata e ordinata in una stanza, invece che sparsa nelle pieghe di istanti non ben documentati.
Forse è colpa del contesto, troppe banche e istituzioni per non far pensare alla belva in gabbia durante un cocktail party a bordo piscina. Ma non importa, gli sconfitti diventano schiavi e vengono portati in corteo come tesoro di guerra.
Mi chiedo se invece sia ancora possibile un’arte così? Così come? Così esplicita, così didascalica, così affannata nel cercare la via per portare un messaggio sovversivo direttamente al cervello, o al cuore.
Altrimenti, se l’assenza del contesto e dell’assenza di una diffusa convinzione di un’idea la renda inutile, per non dire invisibile, per non dire ridicola. Eppure non sono le figurine del “Milanese imbruttito”, nemmeno una vignetta di Biani o un meme qualsiasi costruito nella cultura social-tv americana e diffuso nel mondo per premio di maggioranza mediatico.
Com’era vivere quel costruire sperando, cercando, facendo?



Foto: un particolare di un’opera di Nanni Balestrini e dell’allestimento. Milano, 28 Ottobre 2017, Galleria Gruppo Credito Valtellinese

sabato 7 ottobre 2017

La terapia del dolore

Meglio cosa di questo nulla? Ad un certo punto mi sono accorto che preferirei provare dolore. Un dolore scelto, selezionato come una razza canina, puro come una droga svizzera, somministrato per bisogno come il Malox. Non il dolore della malattia e nemmeno quello della morte vicina. Rivoglio il dolore della negazione, della mia specifica esclusione dalla tua vita, se non posso riavere il dolore di un morso o delle unghie nella pelle in un momento di gioia folle.
Rivoglio almeno un dolore da far consolare, da poter raccontare ubriaco a degli sconosciuti. 
Ma non questo nulla. Non posso vivere anestetizzato come come un centro storico di notte: vissuto solo dai netturbini. Mi sto accontentando di un amico che mi cerca con proposte che fanno piacere solo a lui. Mi accontento di essere utile in qualche modo, mentre vorrei essere superfluo e cercato solo per ciò che sono. “Vieni più vicino”.


Foto: Camogli, Luglio 2017

lunedì 1 maggio 2017

Invito al mio viaggio



L’idea sarebbe che questo improvviso cambio di programma ci ha regalato una giornata. Ti vengo a prendere, ma copriti che piove. No, non portare l’ombrello che ci intralcia, basta un cappuccio, al massimo ci bagnamo un po’ correndo. Che ne dici di una una mostra, da percorrere in silenzio ognuno con un proprio percorso, per poi ritrovarci alla fine e parlare tanto di ciò che ci è piaciuto. Magari ci vediamo al negozio del museo a ridere di gadget. Potremmo percorrere tutti i portici, correndo mano nella mano dove piove. Scendiamo sotto la Rinascente a bere il caffè come i turisti e a guardare cose che non compreremo mai. Possiamo baciarci sulle scale mobili, lo sai che è una mia fissa. Possiamo anche vagare lenti davanti alle vetrine più famose ripetendoci in continuazione che gli abiti sono tutti uguali, come uniformi, alla faccia del libero mercato. Vaghiamo così tanto per stancarci; così quando sei stanca in metropolitana ti puoi appoggiare alla mia spalla, mentre ti bacio piano piano, pianissimo, il collo. Torniamo da me e ci togliamo le  giacche, e tutto il resto. Non ti restituisco più, non ti riporto più a casa, lo prometto. E’ una bella idea? Sì? Allora perché ti ho scritto solamente “Buone feste”.
Lo sai che nel Qoelet, nel capitolo 3, non c’è scritto che esita un tempo per pentirsi e un tempo per perdonare. E’ l’unica cosa che ho imparato.


domenica 26 febbraio 2017

Cerchiamo di inventare un gioco nuovo


Inventiamo un gioco che non sia la metafora della guerra, dove non si debba annientare o umiliare l’avversario. Facciamo che non sia la trasposizione di una battuta di caccia, il contendere una preda con un branco o con un singolo campione. Non si deve giocare da soli, nemmeno uno contro l’altro, possono giocare più squadre o giocatori singoli contemporaneamente. Devi poter giocare anche se non vuoi stare in una squadra, oppure facciamo che il numero di componenti di una squadra non conti, valgono anche le squadre assenti. Facciamo che non ci sono ruoli o parti da interpretare. Che se ci sono delle regole le diciamo subito oppure tutti le dobbiamo scoprire durante. Magari se le scopriamo, nel mentre, fermiamoci un attimo a parlarne. Facciamo che lo scopo del gioco non è vincere, ma l’orgasmo della vittoria sia spalmato per tutta la durata del gioco indipendentemente dal risultato. Deve essere un gioco in cui ognuno ci mette del suo, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche. Non ci si iscrive, ci si trova la e si gioca. Lo vogliamo un arbitro? Non lo so, però se c’è ha sempre ragione lui e se sbaglia è implicitamente un giocatore. Facciamo che un gioco così non potrà mai esistere, oppure se esiste, dovete dirmi come si chiama e perché non ci avete mai fatto giocare.


foto: Let's invent a new game

giovedì 16 febbraio 2017

Chiamata ai poeti



Quanti poeti ci sono intorno a me? Quanti si fermano senza fiato trafitti da un raggio di luce che rimbalza in modo imprevisto? Quanti ammutoliscono per aver visto un dettaglio che gli ha toccato una corda profonda e se ne portano dentro le vibrazioni per ore?
Uno sguardo rubato per strada? Un saluto dal tono sbagliato? La coincidenza di un pensiero, di un incontro e di una scritta sul muro vi imprigionano?
Sappiate che il mondo è vostro, dicono, ma lo state lasciando in mano a chi non ha tatto, a chi lo guarda come se guardasse il proprio riflesso nei vetri della metropolitana, soltanto per non guardare. Sappiate che avete un tesoro che non potete donare, che malamente sapete raccontare. La consapevolezza vi renderà ricchi, ma solo per potervi donare.


martedì 4 ottobre 2016

Compasso


Ho ascoltato il vento che mi parlava di me, diceva ciò che non volevo sentire. Forse non era il vento ma un amico dietro una birra. Ho cambiato le vele per spostarmi lentamente tra i flutti quotidiani, lasciando che i porti lontani si avvicinassero senza sorprendermi. Ho rinunciato alla gioia improvvisa, quella col sapore del vino forte, ma mi sono liberato dai sorsi amari.
Mi sono seduto, dove forse Socrate aveva pisciato di nascosto un pomeriggio, e ho sentito il giro delle vite stringente come un abbraccio.
Ho frugato nelle probabilità mettendo la mano nel gorgo di ciò che non conosco sperando in un colpo fortunato. L’ho ritirata cinico, deridendo il mio tentativo infantile.
Ogni mattina mi chiedo “come stai?” , forse te lo chiedo, forse glielo chiedo. Ma per favore non rispondete tutti assieme.
Ho avvistato qualche cosa, viro nella sua direzione, sperando sia un’isola o una balena, forse un detrito galleggiante.
Avevano ragione Baudelaire e Pavese.



Foto: Stillness, 21 Agosto 2016

domenica 22 maggio 2016

Meglio



Meglio percosso come i tasti di un pianoforte da un musicista infuriato, che dimenticato come un violino in un solaio mai frequentato.
Meglio ubriaco, sotto il sole, tra sconosciuti di un'altra lingua che ti dicono grazie per ogni cosa, che tra amici che ti dicono grazie per ciò che dovrai dare.
Meglio con il mal di piedi per il tropo camminare, che immobile ad immaginarsi camminante.
Meglio incazzato con i mali del mondo, che illuso della loro origine.
Meglio il brivido creativo che si rinnova, che la sazietà di una sola opera ammirata.
Meglio adesso, che ieri, anche se non tutti gli ieri.
Meglio il mio magazzino pieno di sogni, che tutti i magazzini con i sogni in vendita.
Meglio vedere i propri limiti, che non apprezzare il contorno delle cose.
Meglio la polvere tra le pagine, che non vedere il non scritto.
Meglio capire la violenza di un aborigeno, la saggezza di una bambina filippina, la nobiltà di uomo delle isole, che non capire tutti quelli che mi stanno intorno.
Meglio il mio peggio oggi, del mio peggio di ieri, ma non del mio meglio, che per quel che vale, sarà sempre mio.


Foto: bright pink band - 21 Maggio 2016

domenica 20 marzo 2016

Ta bom


C'è probabilmente un eterno conflitto tra il viaggiatore e il turista, non solo perché il "viaggiatore odia l'estate" del turista, forse per un sapore di un possibile non ritorno che il turista non conosce. Non importa, non sceglierò un lato della disputa ma rimarrò a pensare che ogni volta, prima di un viaggio, la sensazione più forte che provo è quella che mi spingerebbe a rinunciare alla partenza. Poi mi ringrazio per non averlo fatto, ogni volta, ogni destinazione, indipendentemente dalla distanza, la metà o la compagnia. Ho deciso che posso viaggiare da solo, ma ci sono persone con cui viaggiare è più bello. Così in Brasile ho imparato l'accoglienza senza peso e l'abbraccio come saluto. A Montevideo che il Sud America non è il Sud America, che ogni volta che una cosa si semplifica con un aggettivo, quello è sempre sbagliato o almeno insufficiente. A Buenos Aires ho imparato tante cose: che posso ancora commuovermi alle lacrime incontrando le Madres di Plaza de Mayo, che non posso vivere in una città dove dei bambini dormono per strada e che la gente può applaudire qualsiasi cosa. A Iguazù mi sono ricordato di essere piccolo. Nel frattempo ho imparato a viaggiare in autobus, i nomi di frutti che nemmeno immaginavo potessero esistere, che ciò che qui è un'emergenza in un altro posto può essere la normalità, che i politici sono percepiti ovunque allo stesso modo, anche i tassisti. Non ho imparato ad accontentarmi, non ho visto la Croce del Sud, non mi sono ancora bagnato nel Pacifico, il Brasile che ho visto non è il Brasile a detta dei brasiliani. E' passato un po' troppo tempo dal mio ritorno a questo post; nel frattempo mi sono goduto, e smaltito, gli effetti benefici della mia assenza e ora cullo la voglia di ripartire.


sabato 2 gennaio 2016

Il segreto


Il segreto ha spesso la stessa forma del suo contenitore anche se non ha la sua stessa materia. Il segreto, anche se senza corpo, può essere talmente pesante da portare, che chi lo nasconde ne manifesta la presenza con la sola postura. Il segreto è un colpo di tosse trattenuto. Il segreto può essere nascosto sempre a tutti i sensi tranne uno, su sei. Il segreto spesso consiste nell’effetto che causerà ciò che si nasconde. Il segreto può essere conosciuto da tanti, ma resta tale, se ne nessuno ne può parlare. Il segreto resta più segreto se a goderne può essere uno solo. Il segreto parla lo stesso linguaggio di chi lo cerca, non di chi lo nasconde. Il segreto ha un valore intrinseco, proporzionale e indivisibile secondo la sua segretezza. Il segreto ha effetti sconosciuti che lo relegano a segreto. Il segreto è contagioso. Il segreto rimane tale finché non è perfettamente conosciuto dal suo custode. Il mio segreto è così effimero che basterebbe poco a farlo decadere a banalità.

foto: Il Segreto.

venerdì 11 dicembre 2015

In punta di matita

Pavese scrisse di quanto è difficile costruirsi su sé stessi, ogni volta, dopo ogni caduta, dopo ogni mancanza scoperta e divenuta insostenibile. Ed è difficile prendere il fardello di delusioni che avevamo fatto finta di dimenticare e rimetterselo davanti agli occhi, frugarci dentro, come in un vecchio baule abbandonato in solaio. Si tirano fuori cose che a prima vista sono nuove ma poi ti investe  quel ricordo, spesso amaro. Come se si misurasse la distanza tra il reale e il desiderato passando la lingua su un immenso limone. Affrontare il limite non basta, nemmeno, una brava e comprensiva insegnante finalmente trovata, è sufficiente, serve un tocco divino che compensi una lacuna nella propria creazione. Ad ogni passo c’è un inciampo e un livido, ma è  indescrivibile la dolcezza di un piccolo successo. Così resto incantato a guardarmi fuori da me, sulle sudate carte, felice di vedermi nuovamente appassionato. Alla fine del sentiero troverò un altro pezzo che cercavo da usare in qualche modo e strada facendo imparerò a tracciare mappe, questa volta da conservare. Così quella sera avrò qualche cosa da raccontarti, da mostrarti, che non siano le solite cicatrici.


Foto: Disegno numero 1. 10 dicembre 2015