venerdì 25 ottobre 2013

Man at work


Io sono quello che si è sempre ritenuto fortunato perché in fondo fa un lavoro che ha scelto, che lo ha sempre gratificato e stimolato. Forse la fortuna non conta più di tanto quando si fanno delle scelte precise e in una direzione netta, però non ho avuto incidenti di percorso che mi hanno fatto deviare, anzi semmai è il contrario e gli incidenti di percorso mi hanno trattenuto sul sentiero che avevo intrapreso. E oggi dopo circa 15 anni di questo lavoro, e molti di più di questa passione, sono qui a chiedermi se ne valga ancora la pena. Non è una crisi di mezza età, ma è un cambio del modo di lavorare e forse una mia minore capacità di sopportare certi stress. Nel mio lavoro il cervello si dedica ad immaginare il comportamento di processi meccanizzati, come nell’alchimia spesso cerca un equilibrio in una formula astratta con una sequenza infinita di tentativi, più spesso come nella magia il linguaggio cerca di plasmare una realtà artificiale e solo il linguaggio la domina ma ne è anche l’unico strumento per intervenire. Ma alla fine di questo lavoro che cosa mi resta tra le mani? Non creato qualche cosa, non ho distribuito un’emozione, non ho salvato vite umane, non ho modificato il destino delle persone, ho solo preso uno stipendio. Ma in cambio ho dato tutto il mio tempo e quello che mi è rimasto è troppo poco per dedicarlo ad altro; i pensieri ansiosi che mi rimangono sono troppo pesanti per essere scacciati dalla mente. Non si ha raggiunto un limite quanto il lavoro ti prende anche i sogni? E quando rende odiosi i desideri? Non è una questione di modo di lavorare o di luogo di lavoro, l’esperienza insegna che spesso, ovunque, è così. E’ la distanza incolmabile tra realtà e desiderio, è quella via di uscita che pensavo di tenere a portata di mano e che oggi è divenuta impraticabile. “Come, Armagheddon! Come!”



Foto: Broken escape - 25 ottobre 2013

8 commenti:

  1. Ciao!:-)
    E' vero, siamo un esempio perfetto di sincronia quasi junghiana :-P
    Una sola domanda: sei sicuro che sia divenuta impraticabile?
    Citando Primo Levi "“Nostre sono “le due esperienze della vita adulta” di cui parlava Pavese, il successo e l’insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo.”

    E se anche lo fosse davvero, non ve ne sono altre?
    Agave-un-po'-inquisitrice-ma-molto-molto-solidale

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Buttarmi li Pavese e Levi,in questi giorni, è più che sincronico. A volte si arriva alla sconfitta, occorre prenderne atto per ritornare all'attacco. La resa è un'altra cosa, forse è lo stato normale di ciò che circonda. "La natura... non è impermeabile all'intelligenza" questa notte mastico questo. ciao

      Elimina
  2. ...Dunque ogni cosa visibile non perisce del tutto,poichè ogni cosa dall'altra ricrea.(Lucrezio) Comunque sia ti comprendo.Virginia

    RispondiElimina
  3. conosco alcune persone felici che il proprio lavoro prenda tanta parte della rispettiva vita. Per passione, non per ambizione. Certo a volte soffrono il peso di alcune situazioni, però, fondamentalmente si sentono bene con questoa distribuzione mentale, forse perché riescono comunque a fare del lavoro anche momento di condivisione negli altri ambiti. Mi verrebbe da dire, quindi, che una qualche forma di conciliazione può esistere. Ma il problema della distanza tra realtà e desiderio, forse non è lineare, è tridimensionale, vale a dire che dipende da dove siamo noi rispetto a quei due punti... forse non siamo più nell'asse che li può unire.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. e' una distanza non geometrica ma, credo, di sensazione.

      Elimina
  4. Comprendo molto bene il senso di questo post perchè spesso l'ho provato anch'o pur ritenendomi fortunata per avere fatto una professione a me congeniale anche se con qualche "deviazione", a differenza di te. Troppo interessata a molteplici campi!
    Posso solo dire questo che,quando i pensieri si trasformano in domande come queste,si affaccia anche la necessità di dar loro nuove forme. Sempre che,non ci si voglia arrendere all'abitudine del piatto.

    Bianca 2007

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Arrendersi al piatto sarebbe accettare la situazione come inevitabile: io non ci riesco. Sarà perché sono cresciuto con un desiderio che pensavo di realizzare,e oggi forse ne ho un'altro. Finché ci saranno sogni non ci sarà resa. Spero. ;)

      Di nuovo scusami per la tardiva risposta, non mi sono accorto che si era persa in blogger.

      Elimina