venerdì 16 gennaio 2015

Aggiornamento da lontano


Ciao, è da un po’ che non ci si sente. Come va? Non dirmi che non ci sono novità perché non può essere vero. Il mondo vive sempre le sue tragedie, alcune silenziose alcune molto rumorose. In fondo quelle che si sentono di più sono anche quelle che fanno sembrare la gente più umana, o semplicemente solidale. Se lo fosse per ogni tragedia le dimostrazioni di dolore e indignazione non finirebbero più. Ma le tragedie finirebbero? Sì anche tu hai partecipato, hai fatto bene. A volte è importante esserci per essere sicuri di… esserci. Il resto? Il solito spazio vuoto? Ah, no come lo chiami tu… il deserto di marmo? Su... passerà, tutto passa, o passa questo o possiamo noi. Ma sì, sono piccole delusioni, che offuscano i momenti di felicità. Dai facciamo qualche cosa, programmiamo qualche viaggio, andiamo a vedere qualcuno o qualcosa! Capisco, l’agenda è già piena… sarà per un’altra volta, magari quando vuoto e pieno non coincideranno.



Foto: Mandala - Pantigliate (Mi)

sabato 22 novembre 2014

Questo sabato


A volte capitano questi sabato mattina quasi perfetti. Una notte segnata da strani sogni e un risveglio lento, ma senza colpe. La colazione lenta e il proposito di uscire che non si dissolve in immaginari ostacoli. Il freddo leggero, il sole, la poca gente sulle strade. Un venditore di Terre di Mezzo ti sfodera un mazzo di testi tra i quali spunta proprio quello che forse cercavi, di cui avevi sentito e che forse volevi. Via Tadino e dintorni colorano di domestica tranquillità una città globalizzata. Un gentile addetto della Provincia ti appare orgoglioso del suo lavoro. Giacometti ti circonda di gambe lunghe e ti parla di esistenze, di imperfezioni della realtà rispetto al desiderio. Non sono le stesse gambe lunghe che ti precedono sui marciapiedi di Corso Venezia. Sei felice di esserti portato la macchina fotografica e non la lasci sonnecchiare. Nulla ti spinge, nulla ti trattiene. Una quasi perfetta mattina di sabato. Quel quasi che resta nei sogni che hanno segnato la notte.



Foto: This is an apple. 22 Novembre

mercoledì 19 novembre 2014

La goccia sulla bottiglia


La goccia aggrappata al bordo della bottiglia trattiene il fiato ascoltando il tutto. Ascolta i rumori nella gente del ristorante, sente il freddo del vetro, sente il liscio del bordo a cui si aggrappa. Non sa come sia finita in quel posto né da dove venga. Potrebbe essere un goccia  sfuggita nel versare il liquido nel bicchiere, potrebbe essere condensa dell'aria aggregata in un punto, ma potrebbe anche essere lo sputo di un cameriere. Non importa, ciò che importa è che essa è. E' li ed è lei, e sente, e resta sospesa per un tempo indefinito. I sensi funzionano e lei accoglie le sensazioni dentro di sé. Io ho un blocchetto di piccoli fogli carta che sono l'archivio storico del mio umore, delle mie ansie e serenità. Sono l'appunto delle mie proiezioni e del mio rintanarmi. Il blocchetto non ha parole e ma solo scarabocchi: linee curve e rette, punti, trattini, tutti di vari colori. Sono un codice che io so leggere, e forse anche gli altri se sapessero che quel libretto è qualche cosa che si può leggere. E' un linguaggio semplice eppure non percepibile, come la voce di una goccia sul bordo di una bottiglia. Ascoltiamo.


Foto: Lago di Verbania, ottobre 2014.

venerdì 26 settembre 2014

Ciao



Margherita fissava dalla finestra il postino varcare appena la soglia del cortile per depositare la posta. La pelle bianca in contrasto con il nero dell'uniforme risaltava sotto il sole di mezzogiorno benché mezzo viso fosse protetto dall'ombra del berretto, una mano in tasca e l'altra fugacemente fece passare una lettera di color verde tenue nella cassetta violentemente rossa delle lettere. Il colore della busta annunciava un invito a qualche rituale festa per i genitori, un richiamo alla leva degli adulti arruolati nell'esercito del corretto comportamento sociale. Non si mosse per andare a prenderla tanto non era per lei. Fino a qualche settimana prima si sarebbe buttata come una donna in fuga da un incendio, giù per le scale, diritta in salotto, lungo il vialetto per prenderla. Avrebbe strappato con i denti la busta e l'avrebbe letta d'un fiato mentre rientrava lentamente, un'altra volta l'avrebbe riletta sulle scale, un'altra volta al tavolino e decine di altre finché non le fosse venuta l'ispirazione per la risposta. Ma questo valeva solo per le lettere di Oliver. Da due anni era iniziato questo fitto scambio di lettere, quasi quotidiano, tanto che un possibile ritardo poteva mettere in allarme sia lei che il postino. Aveva iniziato lei rispondendo ad un suo annuncio sul giornale, l'aveva intrigata l'idea di dialogare, anzi chiacchierare, con uno sconosciuto lontano che mai avrebbe incontrato, per promessa fatta a sé stessa. Racconti, pettegolezzi, giochi di parole, commenti sulla cronaca, confidenze, di tutto si erano scritti, in un dialogo che sembrava inesauribile. Poi all'improvviso cadde il silenzio, dopo una lettera di lei, non più lunga o più breve, non più densa o leggera, delle altre. Ne scrisse un'altra, poi un'altra cambiando il colore della busta, ma non arrivò più nessuna risposta. Lui le aveva scritto in passato di un momento difficile, forse una malattia, ora un ombra si faceva largo dando corpo ad un presentimento, come un fumo nero che invade una stanza. Restava nelle ore libere in una specie di ozio, seduta al tavolino, con i fogli ben ordinati e la penna appena intinta nell'inchiostro. Il polso piegato leggermente lasciava cadere sul foglio qualche goccia azzurra, come se questa volesse sfuggire ed andare a svolgere il proprio compito autonomamente sulla carta. Lo sguardo puntava al cielo, ma non scriveva, pensava. Immaginava di raccontare ad Oliver i suoi pensieri, svolgendoli ordinatamente come se fossero scritti. "Ciao" iniziava e srotolava lettere lunghissime che non scriveva, ma che spediva col pensiero, verso quel mondo non fatto di materia, dove forse lui le poteva ancora leggere.

Foto: Papers, Settembre 2014  ( handwriting base image by aliexpress.com )

lunedì 4 agosto 2014

Sacra Famiglia


Sarebbe rimasto per ore, forse per sempre, a guardare quel quadro. Ci veniva tutti i giorni e tutti giorni si metteva, dopo la funzione seduto sul bordo della panca a guardarlo. L’unico fastidio era lo sguardo fisso del sacrestano che gli si puntava nella schiena come un dito nodoso. Mai una parola, solo quello sguardo opaco, che non lo perdeva di vista un attimo. Cerco di concentrarsi sul dipinto, sulle pieghe del vestito azzurro, sui ricci della barba di San Giuseppe. Nell’uomo raffigurato riconosceva il volto e la corporatura del droghiere dell’angolo più a sud del quartiere, quel vecchietto dal sorriso bonario. Un uomo circondato da cibi e da dolci tutto il giorno, che sorrideva sempre, nonostante quella bastarda bisbetica della moglie e quella cigolante puttanella della figlia: sarebbe stato un padre perfetto, un perfetto Giuseppe. Maria era senza dubbio una delle giovani insegnanti dell’asilo comunale, quello che lui sbirciava dal buco tra il muro e la rete. Lei che cantava con quella voce fantastica, indescrivibile; fantastica anche quando richiamava i bambini per tornare nelle aule. Quando dopo l’ora dei giochi lui era sgattaiolato nel cortile per bere alla fontanella, lei lo aveva visto, ma non aveva detto nulla e non lo aveva cacciato. Sicuramente aveva sorriso anche a lui, come sorrideva generosa a tutti. Si immaginava di essere disteso sul lettuccio e dal quel punto di vista, vedeva sopra di lui i volti degli improbabili genitori. Ne sentiva il profumo, la morbidezza della mano sulla sua fronte, un dolce rumore di voci carezzevoli come sottofondo. Il pensiero correva subito a frammenti di sogno come gite in macchina con la testa fuori dal finestrino ridendo, biciclette rosse in regalo e tavole apparecchiate di piatti fumanti e colorati.
Era ora di uscire, la luce del tramonto gli diede uno schiaffo proprio sugli occhi. Si tastò il panno sporco di benzina nella tasca dei calzoni sudici e voltò le spalle al sole, doveva ritornare dagli altri prima del buio. Incrociò solo una bambina che piangeva, appesa e trascinata dalle mani dei genitori sfiniti. “scema!” penso “sei scema! soltanto una stupida scema!”

Foto: dettaglio della Cattedrale di San Giusto, Trieste

domenica 3 agosto 2014

Tutto bene, grazie


Sandra uscì di casa con il suo dolore al centro del petto. Un dolore che non aveva nulla di cardiaco e di cui conosceva tutto: sapeva da dove veniva, perché era li e che non sarebbe passato. Era una pesante palla chiodata appoggiata sullo stomaco che, ad ogni passo e ad ogni pensiero, ricordava la sua presenza. Sandra uscì con lo sguardo un poco opaco, forse per le lacrime a capolino delle palpebre, forse  per non dover guardare. Avrebbe voluto restare a letto ancora ma era stata distesa troppe ore, e non per sonno, ma per perdersi in quel dormiveglia di fantasie più o meno controllate che potevano creare una realtà alternativa, o tante realtà alternative, ma che tutte finivano nell’orbita di quel dolore. Camminando, incontrando gente più o meno conosciuta, si chiedeva se la gente leggesse nel suo volto la presenza del dolore e se dissimulasse la scoperta. Avrebbe voluto urlare ma non se la sentiva nemmeno di parlare. Descrivere a qualcuno quella cosa sarebbe stato impossibile, le parole avrebbero banalizzato il suo dolore come un “piccolo normale accadimento” della vita oppure come “una piega del suo carattere”, al limite come un po’ di “esaurimento nervoso”. Non poteva tollerare una risposta che includesse che le fosse la vittima predestinata di una crudeltà universale. Eppure lei sentiva il suo dolore come il più grande di tutti, e le prendeva il panico nel pensare che non sarebbe mai passato. La frustrazione che nulla poteva per evitarlo. Come la vittima innocente di un accanimento di cui non si conosce la causa né la motivazione, come un gatto torturato da un gruppo di bambini, o un gruppo di bambini bombardati per chissà quale volere di necessità superiori. Ogni persona che incontrava, lo sapeva bene, aveva la sua croce, pesante, terribile, intima, ma in quella folla di portatori di croci lei si sentiva persa impossibilitata a vedere una via d’uscita. Non poter sperare in un dio, in un farmaco, in un aiuto esterno era la conferma di una specie di predestinazione allla sofferenza che aveva colpito solo lei ed era stata costruita solo per lei. Un immenso teatro che contenesse l’umanità, un piccolo palco con sopra lei e il suo  dolore. Eppure c’erano stati giorni in cui quella sensazione era scomparsa, proprio dimenticata, vederla riapparire così in un istante era l’evidenza del sadismo della vita. Le aveva dato tregua per farla soffrire di più, per sconfiggerla proprio quando lei si sentiva di aver vinto. Camminò molto, con un passo svelto e nervoso, quello di chi sta andando in posto per fare una certa cosa, e non ha interesse in ciò che incontra sul percorso, come se la distanza tra la partenza e l’arrivo fosse solo un necessario impiccio da superare alla svelta. Cammino molto e arrivò alla fine della strada; non c’erano cartelli né segnali particolari ma era evidente che era arrivata alla fine della strada.

Foto: Trieste, 2014

venerdì 1 agosto 2014

Non m'è dolce naufragar benché questo mar…


Se dovessi abbandonare la mia città per un’altra scegliendola liberamente, forse andrei a Venezia. Il perché è difficile, ma per lo più è una questione di pelle, di spazi, di pieni e di vuoti. Forse anche di infinita precarietà. Un po’ perché non ci sono auto e le città pedonali sono attraenti. Trieste è una di queste: abbastanza pedonale, senza parcheggi e quindi respingente per le auto, con il mare. Il mare è tutto un altro capitolo: per me è come il fuoco, lo guaderei con timore per ore. Così come non mi addormenterei vicino ad un fuoco, credo, che non potrei nemmeno addormentarmi vicino al mare. Lo sento vivo, come un unico corpo immenso e  animalesco. Non posso fare a meno di fissarlo. Se abiti in una città con il mare e non hai nulla da fare puoi sempre andare a guardarlo, sarà uno spettacolo sempre nuovo, immenso e un po’ interiore, meglio di ogni televisore. Io non ho né televisore né caminetto, sento il desiderio di un mare da guardare. Si dice che i marinai non sappiano nuotare e potrebbe essere una romantica soddisfazione. Oggi ho comprato un libro sul Mediterraneo, un bel abbinamento tra il mare e una vecchia edizione che raccoglie articoli di un secolo fa. E un libro su Lisbona, anch'essa piccola e fragile, sul mare. E la guida per il Messico. In fondo il fuoco e il mare hanno in comune il continuo rimestare della loro materia; anche quando sembrano immobili, si muovono continuamente, come se fossero sempre insoddisfatti o in cerca di qualche cosa. Ora che ho svuotato la valigia guardo il contenuto sparso, come fosse una radiografia, chissà che non riesca a capirmi.


Foto: dettaglio dal Molo Audace, Trieste, Luglio 2014