Mi metterò un appunto sul frigo del tipo “quando non hai voglia di partire, ricordati che è il momento giusto”. Sono bastati pochi chilometri per sentirsi abbandonare da una presa soffocante. E’ bastata una vacanza breve per prendere appunti su di me, tramite sogni agitati, del mio limite. La discesa nel pozzo di San Patrizio è stata una passeggiata: come camminare in una metafora del mio umore. Per fortuna che T. entusiasta delle strade antiche si è sobbarcata la guida di un migliaio di chilometri, lasciandomi perdere tra i faggi verdissimi dell’Amiata, le morbide colline che annunciano il mare, punteggiate di papaveri rosso sangue, che ora so non essere l’esagerazione dei poeti. Grazie anche al suo fidanzato che conosce fucine di pasta fresca che sono vere oasi di perdizione. Peccato la pioggia e le gocce che cadono sull’obiettivo della macchina fotografica, che fanno tuonare la mia rabbia placata sono dalla gioia di vedere gli amici estasiati tra le meraviglie di Niki de Saint Phalle. O perdersi nelle meraviglie di Spoerri, il cui incanto non è nella bellezza del singolo pezzo, ma dal volerti trattenere per sempre, per trasformarti (si spera) in un pezzo tra di loro. E c’era una piccola bambina che non voleva entrare nell’orco del parco di Bomarzo per paura che questo faccione di pietra la chiudesse nelle fauci. Cogliere la banalità di sentirsi dire che viviamo in un paese incredibile, dove ogni angolo nasconde un tesoro, dove ogni valle culla un miracolo. Non è necessario scovare un borgo aggrappato all’esistenza di un cocuzzolo di tufo, basta un capanno su una spiaggia, o un vicolo. Oppure i gradini di un antico convento trasformato in moderno albergo, consumati dai milioni di passi che li hanno accarezzati, come il vento con le rocce d tufo. Dovrei segnarmi i verbi all’infinito di questa piccola vacanza: andare, cercare, passeggiare, gustare, respirare, guardare, guardare, guardare.
foto: Viterbo, guardata con sospetto