Da piccolo mi mandavano a giocare in compagnia con i miei compagni di scuola o con gli amichetti del quartiere. Io preferivo giocare da solo, nel salone, in un mondo inventato da me tutto fatto di immaginazione. La cosa che odiavo di più era vedere i bambini in cortile e dover scendere per unirmi a loro, mi sentivo un intruso; come se volessi imporre la mia, credevo, non voluta presenza. Poi con gli anni ho capito che era una cosa normale ma era troppo tardi. Da adolescente c’erano le compagnie, a me non piacevano perché erano degli universi chiusi in cui le parole, i gesti i racconti erano sempre nel circolo della compagnia, delle stesse persone. Preferivo gli amici a piccoli gruppi. Da adulto le relazioni si stabilizzano principalmente a coppie oppure a gruppi di coppie, questo a volte mi ricorda quando ero bambino e mi sento fuori posto. Ovviamente non parlo del “giocare da solo”, sarebbe un facile umorismo e Woody Allen ha già esaurito l’argomento. Però la singolarità oggi non è solitudine ma è identità, nel viaggio, nelle attività, nel pensiero. Mi è rimasta solo quella sensazione di essere invadente anche solo con la mia presenza, a volte anche presso le persone più care. Sensazione che forse appare come distacco o freddezza, e non quella goffa autolimitazione che dovrebbe essere. La grande stranezza è che mi piace essere coppia, mi piacciono proprio le condivisioni e le sincronie, le vicinanze e le telepatie. Ma questa è magia e prima di essere una metà devo essere un intero su cui l’altra metà si può appoggiare.
Foto: a couple of, settembre 2011, Carroponte