Dopo la visione del film di Matteo Rovere e dell’interessante ricostruzione storica dell’epoca più che della mitica vicenda, penso che ci si possa atteggiare come dopo un film d’azione molto violento oppure come davanti ad un suggerimento o una metafora. Ovviamente scelgo la seconda ed è una possibilità che non mi aspettavo. I protagonisti e le comparse vivono in un ambiente estremamente ostile dominato dalle forze della natura, dalla violenza del più forte e dalla religione. Ovviamente le tre condizioni si riducono subito a due perché le forze della natura vengono lette come manifestazioni del divino. I due fratelli incarnano allora le due visioni della sopravvivenza e dello sviluppo: Remo punta a fondare una civiltà basata sulla forza e la paura, Romolo è devoto e sottomesso agli dei. La storia, non solo il film, ci insegna che Roma sarà entrambe le cose: una potenza militare che si espande senza pietà e una protettrice delle divinità, nel numero più ampio possibile e valorizzate in base al beneficio che apparentemente porteranno all’impero. Il cristianesimo è stato osteggiato anche perché pretendeva il suo dio come unico e non come un dio tra i molti. La vita ai tempi dei gemelli fondatori era molto dura ma a parte le comodità moderne mi pervade la sensazione che ancora oggi siamo dominati da religione e paura. Se tralasciamo quando coincidono, la paura domina nei regimi autoritari e militari, la religione in quelli democratici. Nelle nazioni democratiche si delega ad una ritualità e ad una sacralità l’organizzazione della società, ci sono i riti come le elezioni, i sacerdoti come i burocrati, le vestali come i politici e vari guardiani dell’ordine. Una prima evidente differenza è che le vestali alimentavano il fuoco a prezzo delle loro vite, i nostri politici non danno questo forte valore al simbolo del divino, ovvero il voto nel nostro caso. Ma la democrazia, come la religione, può essere messa da parte se c’è la necessità di agire con forza e scatenare una guerra. L’altra spaventosa similitudine è la divisione in tribù, siano esse su base etnica o politica. Mi chiedo quanto questo bisogno di appartenere ad un gruppo ben definito sia un retaggio culturale o umanamente biologico. Mi chiedo quanto questo gruppo si possa allargare partendo dal clan familiare ad un intero continente se non a tutto il globo. Eppure anche nelle città più multiculturali la formazioni di enclavi, di ghetti, di aree “specializzate” è sempre presente. La prima osservazione è che esse sono legate alle condizioni sociali ed economiche, ovvero stiamo sempre parlando di poveri o poco più, però spesso sono condizioni migliori delle equivalenti nei paesi di origine storica. Oppure è più desiderabile vivere da individui ricchi tra ricchi oppure in un gruppo di poveri ma molto simili? Oppure la ricchezza costituisce tribù a sé?
Quindi siano Plutarco, Sofocle o Shakespeare possiamo sempre leggere parte del nostro presente nelle storia del passato, come se tutto il progresso che passa dal fuoco di scintille all’energia atomica, l’uomo sia scivolato nel tempo portando incolumi le sue strutture mentali. Lo sviluppo del cervello e della cultura ha prodotto tonnellate di carte piene di buoni propositi che vanno però applicate allo stesso uomo che sacrificava la vita di altri uomini alle divinità, possibilmente non della propria tribù.
Foto: Celti 4/6 - elaborata