mercoledì 4 luglio 2018

Il posto dove vivo



Perché mi segui nel mio vagabondare di cacciatore di momenti, di collegamenti e di simboli?
Non ti nascondere tra le ombre ed evita di travestirti da cespuglio: che a Milano balza subito all’occhio. 
Puoi seguirmi restando dietro pochi passi, tanto non scappo, non voglio nascondere il luogo dove abito.
E’ dove vorrei abitare appoggiando il cuore per sempre , quello stanco ma non arreso. La forma è 
perfetta per nascondere il volto, appoggiando prima la fronte, lasciando scivolare le labbra e poi la 
guancia. Scelgo la guancia destra, il modo che la curva del naso coincida con la forma del collo.
Da quel punto si gode una vista incredibile, perché ora ci credo. Vedo tutto il mio presente sospeso
 in un continuo di felicità. Vedo il mio passato archiviato, come in prescrizione;  anche le cicatrici
 le posso accarezzare distrattamente: non bruciano più, o bruciano poco.
Ammiro il futuro: basta sbirciare lungo la valle che da sulla schiena e so che da qualche parte c’è
 un momento di amore intenso e gioiosa fatica. Tutto intorno è pace e battito ritmico di cuori, lievi 
respiri e qualche bacio.
Vivrei lì per sempre, senza metafore, senza bisogno di altro.




Foto: the place where i live, luglio 2018

mercoledì 23 maggio 2018

Fuori dal bosco


All’improvviso fu una luce accecante che gli esplose in faccia segnando un passaggio dal buio del bosco al sole più arrogante. Ci vollero un po’ di respiri per rendersi conto che il paesaggio era cambiato, che davanti aveva una pianura morbida vezzosamente adornata di colline. Si voltò a guardare il bosco, fitto, nero, e non negò a se stesso la tentazione di tornare dentro in quel mondo ostile, ma che conosceva bene, che per tutta la vita aveva abitato. La schiena era ancora nel freddo dell’ombra, il petto cuoceva nel sole, era tagliato in due dal timore di non toccare nulla , di commettere l’ovvio gesto sbagliato che condanna al lungo pentimento. Restare immobili non ci salva dall’errore, ci toglie la responsabilità di agire delegando il potere alla paura: alla fine resta comunque il pentimento. Ma il sole gli andò incontro benevolo e deciso.
Lasciò cadere lo zaino ma non si sedette a terra, si limitò a guardare il panorama, a mangiarlo per metterselo dentro nello stomaco. Se pochi secondi fà la sorpresa lo voleva ricacciare nel bosco ora aveva paura di tornarci, temeva che tutto questo fosse un sogno. Il bosco era dietro e sembrava allontanarsi, ritirarsi nel passato, per entrarci ora avrebbe dovuto inseguirlo correndo. Intorno non c’era traccia di altre fitte boscaglie, di sentieri arrampicati sulle coste delle montagne sempre sotto la pioggia; c’era solo il prato morbido, il sole e il cielo punteggiato di nuvole con un ruolo strettamente decorativo. In passato il bosco gli aveva concesso delle tregue, degli sprazzi di sole che sembravano la giusta libertà, ma poi si era richiuso imprigionandolo di nuovo.
Nel lungo vagare inseguendo le luci nella folta boscaglia aveva inventato il suo sentiero non avendo tracce che lo aiutassero; camminando e inciampando aveva tanto sognato il mondo fuori dal bosco e ne aveva fatto un progetto ben definito nella sua mente. Il disegno del mondo “come  avrebbe dovuto essere” era descritto in ogni dettaglio e adesso quel mondo era davanti ai suoi occhi. Non era l’emozione a dare questa illusione, era l’erba che si muoveva nella brezza esattamente come lui aveva immaginato si muovesse, così il ruscello faceva il giusto rumore e la temperatura sulla pelle era perfetta. Poteva essere solo un sogno se la perfezione del desiderio non esiste nel mondo. Il bosco allora era un posto più sicuro perché nella tragicità del dolore c’è la certezza del reale, della vita. Il sogno è la vita sospesa, è il cuore che si prende una pausa e chiede al cervello di cantargli una canzone. Ma il sogno, ammesso fosse un sogno, continuava; allora tanto valeva la pena di prendere lo zaino e attraversarlo, di gustarselo fino in fondo questo sogno, tanto al risveglio ci sarà tempo per bestemmiare nuovamente il dio carceriere. Si infilò uno stelo d’erba tra le labbra, si sorprese per il sapore che incredibilmente già conosceva e si avviò verso una valle tra due colline dal profilo dolce, dove il tramonto appoggiandosi sembra disegnasse un sorriso di benvenuto.


foto: In/Out

martedì 5 dicembre 2017

Durante e dopo il dolore


Cosa resta del dolore? Di tutta questa tua sofferenza, quella che ora ti possiede? Quando sarà passata che segni lascerà? Quante persone nel tempo di leggere queste righe, stanno urlando straziati oppure sono muti, soffocati, da una sofferenza profonda?
Solo il dolore ritratto dagli artisti, nemmeno dai cronisti, riesce a scolpirsi nella materia e diventare comune. Ci servirà per condividere, ci servirà per ricordare, anche quando i giorni del dolore saranno lontani. Ma non serve per imparare, l’opera colloca la sofferenza nel passato o nella distanza. Ci duole di più una piccola sconfitta in una partita di calcio che un genocidio lontano. Il dolore non si può rappresentare, in fondo, non si può nemmeno raccontare.
Forse si dovrebbe cercare di rappresentare il conforto, la sommatoria di tanti dolori diversi: grande vero gesto di umanità.



Foto: dettaglio dell’allestimento dell’opera di Enrico Baj “I funerali dell’anarchico Pinelli” - Fondazione Marconi

sabato 28 ottobre 2017

Arte Ribelle



Come una tempesta chiusa in un bicchiere tappato dal palmo di una mano. Purtroppo anestetizzata, catalogata, esposta, de-localizzata, solo come una mostra, o una ricerca, possono fare. E’ comoda la storia srotolata e ordinata in una stanza, invece che sparsa nelle pieghe di istanti non ben documentati.
Forse è colpa del contesto, troppe banche e istituzioni per non far pensare alla belva in gabbia durante un cocktail party a bordo piscina. Ma non importa, gli sconfitti diventano schiavi e vengono portati in corteo come tesoro di guerra.
Mi chiedo se invece sia ancora possibile un’arte così? Così come? Così esplicita, così didascalica, così affannata nel cercare la via per portare un messaggio sovversivo direttamente al cervello, o al cuore.
Altrimenti, se l’assenza del contesto e dell’assenza di una diffusa convinzione di un’idea la renda inutile, per non dire invisibile, per non dire ridicola. Eppure non sono le figurine del “Milanese imbruttito”, nemmeno una vignetta di Biani o un meme qualsiasi costruito nella cultura social-tv americana e diffuso nel mondo per premio di maggioranza mediatico.
Com’era vivere quel costruire sperando, cercando, facendo?



Foto: un particolare di un’opera di Nanni Balestrini e dell’allestimento. Milano, 28 Ottobre 2017, Galleria Gruppo Credito Valtellinese

sabato 7 ottobre 2017

La terapia del dolore

Meglio cosa di questo nulla? Ad un certo punto mi sono accorto che preferirei provare dolore. Un dolore scelto, selezionato come una razza canina, puro come una droga svizzera, somministrato per bisogno come il Malox. Non il dolore della malattia e nemmeno quello della morte vicina. Rivoglio il dolore della negazione, della mia specifica esclusione dalla tua vita, se non posso riavere il dolore di un morso o delle unghie nella pelle in un momento di gioia folle.
Rivoglio almeno un dolore da far consolare, da poter raccontare ubriaco a degli sconosciuti. 
Ma non questo nulla. Non posso vivere anestetizzato come come un centro storico di notte: vissuto solo dai netturbini. Mi sto accontentando di un amico che mi cerca con proposte che fanno piacere solo a lui. Mi accontento di essere utile in qualche modo, mentre vorrei essere superfluo e cercato solo per ciò che sono. “Vieni più vicino”.


Foto: Camogli, Luglio 2017

lunedì 1 maggio 2017

Invito al mio viaggio



L’idea sarebbe che questo improvviso cambio di programma ci ha regalato una giornata. Ti vengo a prendere, ma copriti che piove. No, non portare l’ombrello che ci intralcia, basta un cappuccio, al massimo ci bagnamo un po’ correndo. Che ne dici di una una mostra, da percorrere in silenzio ognuno con un proprio percorso, per poi ritrovarci alla fine e parlare tanto di ciò che ci è piaciuto. Magari ci vediamo al negozio del museo a ridere di gadget. Potremmo percorrere tutti i portici, correndo mano nella mano dove piove. Scendiamo sotto la Rinascente a bere il caffè come i turisti e a guardare cose che non compreremo mai. Possiamo baciarci sulle scale mobili, lo sai che è una mia fissa. Possiamo anche vagare lenti davanti alle vetrine più famose ripetendoci in continuazione che gli abiti sono tutti uguali, come uniformi, alla faccia del libero mercato. Vaghiamo così tanto per stancarci; così quando sei stanca in metropolitana ti puoi appoggiare alla mia spalla, mentre ti bacio piano piano, pianissimo, il collo. Torniamo da me e ci togliamo le  giacche, e tutto il resto. Non ti restituisco più, non ti riporto più a casa, lo prometto. E’ una bella idea? Sì? Allora perché ti ho scritto solamente “Buone feste”.
Lo sai che nel Qoelet, nel capitolo 3, non c’è scritto che esita un tempo per pentirsi e un tempo per perdonare. E’ l’unica cosa che ho imparato.


domenica 26 febbraio 2017

Cerchiamo di inventare un gioco nuovo


Inventiamo un gioco che non sia la metafora della guerra, dove non si debba annientare o umiliare l’avversario. Facciamo che non sia la trasposizione di una battuta di caccia, il contendere una preda con un branco o con un singolo campione. Non si deve giocare da soli, nemmeno uno contro l’altro, possono giocare più squadre o giocatori singoli contemporaneamente. Devi poter giocare anche se non vuoi stare in una squadra, oppure facciamo che il numero di componenti di una squadra non conti, valgono anche le squadre assenti. Facciamo che non ci sono ruoli o parti da interpretare. Che se ci sono delle regole le diciamo subito oppure tutti le dobbiamo scoprire durante. Magari se le scopriamo, nel mentre, fermiamoci un attimo a parlarne. Facciamo che lo scopo del gioco non è vincere, ma l’orgasmo della vittoria sia spalmato per tutta la durata del gioco indipendentemente dal risultato. Deve essere un gioco in cui ognuno ci mette del suo, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche. Non ci si iscrive, ci si trova la e si gioca. Lo vogliamo un arbitro? Non lo so, però se c’è ha sempre ragione lui e se sbaglia è implicitamente un giocatore. Facciamo che un gioco così non potrà mai esistere, oppure se esiste, dovete dirmi come si chiama e perché non ci avete mai fatto giocare.


foto: Let's invent a new game