domenica 20 marzo 2016

Ta bom


C'è probabilmente un eterno conflitto tra il viaggiatore e il turista, non solo perché il "viaggiatore odia l'estate" del turista, forse per un sapore di un possibile non ritorno che il turista non conosce. Non importa, non sceglierò un lato della disputa ma rimarrò a pensare che ogni volta, prima di un viaggio, la sensazione più forte che provo è quella che mi spingerebbe a rinunciare alla partenza. Poi mi ringrazio per non averlo fatto, ogni volta, ogni destinazione, indipendentemente dalla distanza, la metà o la compagnia. Ho deciso che posso viaggiare da solo, ma ci sono persone con cui viaggiare è più bello. Così in Brasile ho imparato l'accoglienza senza peso e l'abbraccio come saluto. A Montevideo che il Sud America non è il Sud America, che ogni volta che una cosa si semplifica con un aggettivo, quello è sempre sbagliato o almeno insufficiente. A Buenos Aires ho imparato tante cose: che posso ancora commuovermi alle lacrime incontrando le Madres di Plaza de Mayo, che non posso vivere in una città dove dei bambini dormono per strada e che la gente può applaudire qualsiasi cosa. A Iguazù mi sono ricordato di essere piccolo. Nel frattempo ho imparato a viaggiare in autobus, i nomi di frutti che nemmeno immaginavo potessero esistere, che ciò che qui è un'emergenza in un altro posto può essere la normalità, che i politici sono percepiti ovunque allo stesso modo, anche i tassisti. Non ho imparato ad accontentarmi, non ho visto la Croce del Sud, non mi sono ancora bagnato nel Pacifico, il Brasile che ho visto non è il Brasile a detta dei brasiliani. E' passato un po' troppo tempo dal mio ritorno a questo post; nel frattempo mi sono goduto, e smaltito, gli effetti benefici della mia assenza e ora cullo la voglia di ripartire.


sabato 2 gennaio 2016

Il segreto


Il segreto ha spesso la stessa forma del suo contenitore anche se non ha la sua stessa materia. Il segreto, anche se senza corpo, può essere talmente pesante da portare, che chi lo nasconde ne manifesta la presenza con la sola postura. Il segreto è un colpo di tosse trattenuto. Il segreto può essere nascosto sempre a tutti i sensi tranne uno, su sei. Il segreto spesso consiste nell’effetto che causerà ciò che si nasconde. Il segreto può essere conosciuto da tanti, ma resta tale, se ne nessuno ne può parlare. Il segreto resta più segreto se a goderne può essere uno solo. Il segreto parla lo stesso linguaggio di chi lo cerca, non di chi lo nasconde. Il segreto ha un valore intrinseco, proporzionale e indivisibile secondo la sua segretezza. Il segreto ha effetti sconosciuti che lo relegano a segreto. Il segreto è contagioso. Il segreto rimane tale finché non è perfettamente conosciuto dal suo custode. Il mio segreto è così effimero che basterebbe poco a farlo decadere a banalità.

foto: Il Segreto.

venerdì 11 dicembre 2015

In punta di matita

Pavese scrisse di quanto è difficile costruirsi su sé stessi, ogni volta, dopo ogni caduta, dopo ogni mancanza scoperta e divenuta insostenibile. Ed è difficile prendere il fardello di delusioni che avevamo fatto finta di dimenticare e rimetterselo davanti agli occhi, frugarci dentro, come in un vecchio baule abbandonato in solaio. Si tirano fuori cose che a prima vista sono nuove ma poi ti investe  quel ricordo, spesso amaro. Come se si misurasse la distanza tra il reale e il desiderato passando la lingua su un immenso limone. Affrontare il limite non basta, nemmeno, una brava e comprensiva insegnante finalmente trovata, è sufficiente, serve un tocco divino che compensi una lacuna nella propria creazione. Ad ogni passo c’è un inciampo e un livido, ma è  indescrivibile la dolcezza di un piccolo successo. Così resto incantato a guardarmi fuori da me, sulle sudate carte, felice di vedermi nuovamente appassionato. Alla fine del sentiero troverò un altro pezzo che cercavo da usare in qualche modo e strada facendo imparerò a tracciare mappe, questa volta da conservare. Così quella sera avrò qualche cosa da raccontarti, da mostrarti, che non siano le solite cicatrici.


Foto: Disegno numero 1. 10 dicembre 2015

sabato 17 ottobre 2015

Sole da mangiare


Dopo una settimana di pioggia grigia, caduta a piccole gocce dispettose, una giornata di sole va mangiata. Va inghiottita e messa dentro al torace. L’unico posto chiuso frequentabile è il negozio di colori di Brera; poi subito via, verso il Parco. Così che ti ritrovi in un attimo su una panchina, il sole caldo seduto vicino, le famiglie che passeggiano, le ragazze che corrono, un sax lontano che suona. Non vado nemmeno a cercarlo, non voglio vederlo, mi piace immaginare che sia una musica che venga da fuori quadro come una colonna sonora. Resto li e mangio autunno. Il libro che ho con me è un Erri De Luca, quello condannato da chi sa leggere la legge ma non la capisce. E’ un libro di strade iniziate, come i segni che indicano i sentieri in montagna. Dalle prime pagine prendo un nome Menahem Zemba e una frase “Gli insorti del ghetto cercavano di mettere in salvo i poeti, gli scrittori. Così fanno gli alberi circondati dalle fiamme: scaraventano lontano i loro semi.”. Ho mangiato ma non sono sazio, ma ho assaggiato la serenità e ora devo cucinarmela.

Foto: Al parco, 17 Ottobre 2015

venerdì 11 settembre 2015

Il cielo è indifferente


Il cielo è indifferente.
Quando indifferenti sono gli uomini, allora li giudichiamo ingiusti.
Come dovremmo giudicare ora questo cielo?



Foto: Agosto 2015

mercoledì 15 luglio 2015

Portatemi al mare

Due ragazze in metropolitana si danno istruzioni, con voce calma, sulle borse, i vestiti e le creme che porteranno nella loro comune vacanza. Così, all’improvviso, avrei potuto dire “Portatemi con voi!”. Andiamo assieme verso quel mare, vestiti il meno possibili, finché la morale lo consente. Restiamo distesi sulla spiaggia calda, sulla sabbia dura, con il sole che ci brucia la pelle e che cerca di infilarsi sotto le palpebre. Restiamo immobile per far bruciare la pelle, con in nostri tre corpi accostati, vicini fino a sentirne il calore e l’odore di crema solare. I bambini correranno spargendoci addosso la sabbia, noi sorrideremo, tre volte; alla quarta ci chiederemo dove sono i loro genitori e perché non si prendono cura dei loro figli. Potremo fare il bagno, dove goffamente cercherei di nuotare mentre voi chine nell’acqua poco lontano dal bagnasciuga vi immergerete immobili fino al collo e fino alla prossima onda. In quel momento vi concedo di ammirare gli altri uomini dal fisico scolpito da una ginnastica adolescenziale e da una genetica benevola. Mi immagino il frastuono dei rumori, dei gridolini, delle musiche lontane, degli aeroplani con le code pubblicitarie, delle onde contro i corpi dei bagnanti corpulenti che si fanno scoglio con la schiena. Passeggeremo lungo la lingua umida della sabbia compatta scavalcando castelli in costruzione e calpestando, fingendo distrazione, quelli sguarniti. Le conchiglie giocherebbero a bucarci la pelle dei piedi, mentre l’acqua simula una carezza scavando la sabbia sotto il nostro peso. Potremmo andare avanti così, per l’infinito, in uno stolto assolato presente decerebrandoci di nulla, di mare e di caldo. Potreste anche innamoravi di me, ma in quel momento saremmo già alla fermata dopo e le porte aprendosi farebbero fuoriuscire la spiaggia da questo vagone e dal mio vagare.


foto: Was here, 2012

sabato 4 luglio 2015

Intra moenia


Era il suo primo pensiero del mattino e, spesso, l’ultimo della sera. Fissava l’alta e spelacchiata siepe che lo separava la piccolo giardino del vicino e pensava che un muro sarebbe stato meglio.
Un muro non molto alto, un paio di metri, di mattoni rossi come la casa con un elegante bordo di granito in cima. Sarebbe stato più riservato, più intimo, più separato dal quella chiassosa famiglia con quel bambino urlante e quella griglia puzzolente sempre in funzione. Non avrebbe più visto il disordine di quel giardino a dir poco abbandonato, quel muso di topo del loro cane infilarsi nella siepe per minacciare la sua proprietà. Ma se quel muro l’ossessionava, l’altro lo faceva impazzire. Era la parete che separava il suo ripostiglio dalla camera da letto dell’altra famiglia di vicini, una coppia con due bambini e un simpatico cagnone. Non lo avrebbe mai confessato, nemmeno sotto tortura, ma aveva passato delle ore appoggiato a quella parete ascoltando la loro vita. Si metteva quasi seduto, appoggiando il sedere sullo scaffale nel poco spazio libero, le mani contro la porta e l’orecchio al muro. Poteva sentire le loro discussioni, i capricci dei bambini, l’abbaiare festoso di Koki. Assorbiva tutto, immaginava tutto e avrebbe voluto urlare la sua opinione di osservatore imparziale e indubbiamente saggio. Incontrando l’uomo della coppia per strada a volte avrebbe voluto fermarlo durante il saluto, buttare la qualche frase e parlando d’altro dargli la propria opinione, così per fargli capire che su di lui poteva contare. Qualche volta, di giorno o di notte, li aveva anche senti far l’amore e un orgasmo mentale aveva travolto anche lui nell’apice della partecipazione più intima. Più volte aveva cercato di architettare un modo per assottigliare quella parete, ad esempio grattandone via un po’ per volta il cemento, ma non ne aveva avuto il coraggio. Stava pensando di approfittare della loro partenza per le vacanze estive (quanto gli sarebbero mancati!) per forare in modo millimetrico il muro, non per spiarli, non sia mai, ma per respirare un po’ della loro aria. Come quel profumo intenso di carne alla brace, vigoroso e famigliare, ma no, forse no, quell’odoraccio arrivava dagli altri vicini.

Foto: Berlino, memoriale dell'Olocausto, 2007