lunedì 6 dicembre 2010

Verba manent, manent, manent e manent


Leggo una frase, se vuoi banale, in un libro e penso “ecco ciò che dovrei fare!”. E’ un insegnamento semplice, che già conoscevo, era un modo di vivere che già mi ero proposto di seguire, ma perché ora che l’ho letto diventa un consiglio da seguire? Perché prima non lo era, benché ci fossi arrivato solo? Siamo succubi dell’insegnamento o della parola scritta? Forse per questo uno dei libri più venduti al mondo insegna a smettere di fumare oltre al normale buonsenso; però mi torna in mente un insegnamento Zen dove un uomo saggio va da un maestra e chiede “Quale via devo seguire?”, il maestro ripose “sii buono e giusto!”. Il saggio rimase stupito ed esclamò “Ma questo lo sa anche un bambino!”, il maestro replicò “Sì, lo sanno tutti, ma pochi lo fanno”.
In realtà temo che la forza della parola scritta, dell’insegnamento esterno, sia un meccanismo imposto dalla disciplina occidentale. Invece che ascoltarci obbediamo all’esterno. Detto così sembra terribile, e forse è solo un’esagerazione, però nello stesso libro ho scoperto che molti uomini non riescono ad urinare da supini per l’educazione avuta da bambini.


foto: Libri proibiti, dicembre 2010

giovedì 2 dicembre 2010

Queste sere, alcune sere


La mia stanchezza non è il risultato di una fatica, se non quella che faccio per non essere stanco. Puoi lavorare molto e accorgerti che non sei riuscito a lasciare i problemi attaccati alla scrivania, tra la foto del ragazzo in bicicletta e cartolina del ristorante giapponese. Magari è un po’ il tempo meteorologico che si mette di traverso, oppure quello cronologico, perché hai dormito poco e non hai più l’età per recuperare velocemente. Di fatto la tua mente punta, cerca, pulsa, come con cane da caccia in uno zoo appena sgomberato. Si sporge negli angoli della città cercando idee, stimoli, segnali. Ma si deve ritrarre perché il corpo non la segue, perché quest’oggi sta chiedendo una pausa. Se sei allergico come me alla televisione chiudersi in casa diventa un esilio. La radio immancabilmente sbaglierà musica e la tua musica è sempre la stessa. Gli occhi non vogliono leggere e le mani vorrebbero restare chiuse come fiori. In serate come queste dovrebbe esserci un abbraccio pronto in cui riposarsi, mani lievi che ti perlustrano le tempie e inviti a fare l’amore detti solo con le ciglia degli occhi. Devo comprarmi una bella coperta colorata.


foto: Roma, 30 novembre 2010, pioveva, c'era traffico ma in auto si stava bene. traffico, ma in macchina si stava bene.

giovedì 11 novembre 2010

In autunno non c'è apatia


Non so se sarebbe più facile oppure no: per un attimo ho pensato che potrei anche deporre l’armatura e vestirmi di vetro. Tanto cosa c’è da nascondere? Sei quello che sei, e non sei Sergio Rubini per poter interpretare il personaggio che vuoi. Sei quello che sei, e gli altri vedono comunque quello che vogliono. Quindi tanto vale avere una pelle di vetro e lasciare che il sangue scorra contro la parete liscia mostrando le pulsazioni delle tue piccole ansie. Il cuore potrebbe ballare in uno spettacolo per il pubblico e lo stomaco contrarsi in deflagrazioni di acidi. Potrei lasciare che la pioggia in autunno mi cada addosso e scivoli verso le giunture per tornare ad essere goccia. Come effetto “maglietta bagnata” sarei un poco deludente, però con una lampadina dietro la schiena farei la mia porca e macabra figura! Sarebbe definitivamente bello conciliare il “dentro” e il “fuori”, magari sperando che si assomiglino, magari sperando che tanti anni passati al tornio dell’auto auscultazione abbiano sgrossato ciò che il caos ha fatto nascere. Comunque il momento del dubbio è passato e posso rivestirmi con la maglia intessa di scaglie di pagine di copione e di stereotipo, però non mi abbottono del tutto, lascio un bottone e un’asola separati dallo spazio che basta per lasciarti infilare una mano.



foto: pensilina sotto casa, 7 novembre 2010

domenica 24 ottobre 2010

Grazie per le vostre facce


Alla fine ci sono riusciti a convincermi e ho raccolto un po’ di foto da stampare che , anche in caso di tempesta magnetica, vorrei tenere. Ne è uscita una collezione di persone per me importanti, non cose, non luoghi. Eppure di “foto ricordo” ne scatto ben poche, ma in questa fase della mia vita voglio conservare questa memoria. Il pensiero però si è fissato alle persone di cui non ho la foto, di alcune di queste non potrò più averla. Di alcune vorrei mettermi subito alla caccia, anche se sarebbe insensato. Dovrei ricordarmelo: “nei momenti importanti bisogna fare foto”, solo che i momenti diventano importanti quando si incrostano di emozioni. Mettendo le foto in ordine di tempo ho notato come le mie amicizie non siano sostanzialmente cambiate, al massimo si sono estese e polarizzate su alcune persone con cui passo molto tempo, con cui ho molto in comune. Ho anche foto mie, il che mi sorprende perché di molte non so da dove arrivino o chi sia l’autore. Il mio album sarà un “cru” di facce amiche e pochi convenevoli, alcune buffe con espressioni insensate se non ci si ricorda il contesto. Bello sarà rivederle assieme e far rinascere nella memoria la sensazione di allora. In fondo si fotografa anche per questo.


foto: M. Abakanowciz, Fondazione Pomodoro, Giugno 2009

venerdì 22 ottobre 2010

Segnali di pericolo per eccessiva distanza


In ogni istante della nostra vita espandiamo messaggi, come una scia di profumo o come il lampeggiare di un segnale di attenzione. In continuazione ripetiamo, senza parlare, chi siamo o vorremmo essere, e cosa cerchiamo. Alcuni di noi espandono messaggi così confusi che l’effetto è comunicare l’opposto. Il nostro sguardo, un dettaglio del nostro abbigliamento, la posa del corpo, il tono della voce che usiamo per rispondere ad una domanda improvvisa, svelano un pezzo di noi che è sotto la corteccia. Io non sono bravo a leggere questi messaggi, però mi invento di recepire centinaia di segnali che forse non esistono. Chissà se sono bravo invece a trasmettere inconsapevolmente il mio segnale? Quel messaggio flebile che prima di arrivare alla coscienza di un osservatore casuale si disperde in gran parte, si altera, e lascia una traccia atomica che deve venire interpretata. Sono affascinanti i messaggi del corpo. Certi corpi li lascerei parlare per ore, certi no. Eppure involontariamente l’immagine di noi che vogliamo tramettere spesso non arriva, o si decompone e giunge a decine di spettatori in decine di modi differenti. Come la luce che disegna le fotografie che non riconosciamo, perché i nostri sensi non sono oggettivi e costruiscono immagini non reali. Come i primi archeologi delle piramidi cerco di dare un senso agli enigmi del tuo sguardo, del tuo non detto, del tuo scritto, del differente taglio di capelli e del tempo che impieghi a percorrere un metro di asfalto. Ciò che ne ricavo non serve a nulla, se non quando l’armatura è posata, a divenire il materiale con cui si costruiscono i sogni. E’ la che ti ho costruito, è la che ti ho chiuso, è da la che devi cercare di fuggire.



Foto: Stresa, Isola dei Pescatori, 21 agosto 2010

domenica 10 ottobre 2010

Conosco la parola ma non il rimedio




“Mamihlapinatapei” è tutto ciò che riesco a pensare; la penso come è scritta perché non la so pronunciare. Incrocio lo sguardo di un tizio che forse conosco, di fatto ci guardiamo ma nessuno dei due saluta l’altro, ancora “mamihlapinatapei”. Penso alla ragazza mora che ha sbagliato a premere il pulsante dell’ascensore e mi ha guardato forse per scusarsi, con due occhi roventi, aspettando forse un mio commento simpatico, invece ho sorriso, ancora mamihlapinatapei. Penso che ci sarebbero un paio di cose che dovrei fare, che però posso rimandare, aspettando che le faccia qualcun altro per mille motivi, ed è ancora mamihlapinatapei. Questa parola che viene dalla Patagonia si potrebbe tradurre come lo sguardo di due persone che vogliono iniziare qualche cosa ma sono entrambe riluttanti nel cominciare. Quanti momenti così ho vissuto e solo per il fatto che ancora me li ricordo significa che, per lo meno, me ne pento. Eppure non basta ricordarsi di episodi simili passati perché non si ripetano più. Sarà per timidezza o per orgoglio, per paura o per arroganza questo rinunciare a scoprire il petto durante l’attacco mi porta allo stallo. Questa parola che ho scoperto oggi sostituisce l’idea di trovarsi davanti ad una matassa di fili, non quelli di una bomba che si devono tagliare prima dello “zero”, ma quelli da seguire per districare il garbuglio dei pensieri e fare ordine. Invece si resta immobili a contemplare la matassa, a seguire la luce che si incastra nei fili e non riesce a colare fino al nucleo del groppone. Non solo di quello che resta in gola. Questa si chiama impasse, perché da soli non può essere mamihlapinatapei.



foto: centro stella, 9 ottobre 2010

sabato 2 ottobre 2010

Racconto di caccia


Avevo puntato la sveglia alle 6.00 per poter uscire in tempo per fare delle foto durante l’alba. Volevo andare in tutti i luoghi che ho notato un paio di settimane fa, quando ero disarmato di macchina fotografica e il sole mi prendeva in giro mostrandomi colori che non potevo intrappolare. Quando è suonata sono scattato senza ripensamenti e pochi minuti dopo ero già fuori. Con un passo ridicolo sono uscito di casa, senza fare alcun rumore. Arrivo ai garage e incontro i vicini, una coppia che avrà l’età dei miei genitori e che rientrano del ballo liscio. “Mica male come vita notturna!” penso. Accendo l’auto e l’orologio sul cruscotto indica le ore 1.12, penso “dannazione si è fottuta la batteria e avrò perso tutte le stazioni radio memorizzate”. Controllo l’ora sul cellulare: “1.12 a.m.”. Non posso che ridere di me: la sveglia non aveva suonato, il trillo me lo ero sognato! Torno a letto ad aspettare per 5 lunghe ore. Sventola come l’emblema di famiglia la nostra atavica ansia. Però ne vale sempre la pena, all’alba, fuori, c’è un altro mondo, con altri colori e gente differente. La mia dipendenza dal fotografare sta aumentando e oggi pulsa come la più bella delle mie passioni.



foto: Luna Park a Novegro, 2 ottobre 2010