lunedì 31 dicembre 2012

Pa pa ra pa paaa



Squillino le trombe, percuotete i tamburi, schiantate i cembali: l’anno è finito! Fate pure le liste per il nuovo anno, gli impegni, le promesse, però mettetene almeno una che possiate mancare già il primo giorno del nuovo anno. Ora si dovrebbero fare i bilanci, gli esami di coscienza, lucidare gli specchi e tagliarsi la barba. Sembra un pò San Valentino con la sua banalità, “perché dovrei fare un’analisi oggi della mia vita quando la faccio tutti i giorni”, suona un po’ come “perché dovrei fare l’innamorato oggi quando (mi) amo tutto l’anno”. Però alla faccia delle liste quest’anno ho concluso quasi tutti i miei propositi. Ammetto che erano facili, che ho quasi solo dovuto lasciare che si realizzassero autonomamente, però del mio ce l’ho messo. Quelli mancati, giusto un paio, non sono avvenuti “a mia insaputa” e contro la mia “volontà”. Quindi mi promuovo per un altro anno di perfetta apparenza. Al nuovo giro rimetto il lista gli obiettivi mancati e ne aggiungo un paio, va bene facciamo tre... quattro. Però noto che quelli mancati sono scritti con una grafia strana, sempre mia, ma corsiva. E’ il modo in cui scrivevo da bambino. Oh cielo, ma da quanti anni sono in lista?

Foto: dettaglio di un’opera di Alberto Garutti  "Il cane qui ritratto appartiene ad una delle famiglie di Triviero. Quest'opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno" - Pac Milano 2012

domenica 23 dicembre 2012

Tana libera tutti, prima o poi


Non pensare, non illuderti, che basti un velo a nasconderti. Nemmeno un tessuto più spesso della materia di cui sono fatte le vele, nemmeno le distanze dei mari bastano a nasconderti. La tua presenza mi percuote lo stomaco come il mi più basso che io abbia mai sentito, la rilevo come una radiazione di fondo, un om costante. Hai costruito un edificio di carbonio cementato da parole esoteriche credendo inespugnabile il tuo nascondiglio, ma il grido che non riesci a trattenere mi richiama più del tuo odore o delle tue tracce. Puoi sfuggire agli anni che questo ciclo di vita ti consente, ma ricadrai nel prossimo, e nel prossimo ancora, perché non ci sarà pace finché ci sarà distanza. Non illuderti della tua stagionalità, saprò aspettare, come attendo oggi paziente il cioccolato che si fonde.

foto: Alchechengi, 23 dicembre 2012

domenica 9 dicembre 2012

La placenta di Linus


La passerella solida con cui è iniziato l’attraversamento del baratro sembra più stretta, mentre i venti polverosi mi confondono la vista. Gli occhi secchi vorrebbero chiudersi per riposare, ma temono il buio. Una massa nera, seduta come una vecchia foca ( questa è veramente buia ) solo i riflessi da piume di corvo la rendono pericolosamente attraente. Un mostro con gli orecchini di perla. Mi chiedo quale dovrebbe essere il ritmo dei miei passi, quale cadenza dovrei tenere? Provo a posare un passo per ogni battito del cuore, che ora solo ora, mi accorgo quanto sia lento. Intanto gli occhi bramano tutta la distanza, ma sento solo il vuoto, ciò che ho è mancanza. I pugni esistono per non avere le mani vuote, ma le unghie feriscono senza fare complimenti. La strada ha curvato, me ne sono accorto solo ora, mentre penso che anche il cerchio è un poligono. Non i cerchi concentrici dei poligoni, che fingono di essere qualcosa di diverso dal petto di un uomo. Allora ci sarannio spari, ma anni di musica di nicchia mi ha reso immune alla sorpresa, ma non alla noia. Un bambino affamato cerca di buttare tutto il mare in una buca, un adulto lo guarda e lo deride. Il bambino a sua volta deride l’adulto, perchè sa che entrambi non potranno fare a meno di cercare di svuotare il mare. L’adulto vede nella buca l’arroganza, il bambino la fame. Una fame infinita da Arlecchino, una sete da alcolizzati, una serenità da dementi. In tasca ho un foglietto: una vecchia lista della spesa, troppo corta per essere vera. Un altro promemoria dello sbaglio, come la ricevuta di una scommessa perdente nella tasca di un fallito. Potrei farci una barchetta, ma non mi fido senza una tormentina bianca e candida. Mi ci appallottolo dentro, per favore, calciatemi dentro la primavera.

foto: On Space Time Foam 3. Installazione di T. Saraceno, HangarBicocca, Milano

giovedì 22 novembre 2012

Della crisi


Ci sto pensando da un po' e credo che dovrò affrontare la questione in più momenti. Tanto per cominciare la definizione del vocabolario non mi piace nemmeno quando la intende come "momento decisivo, scelta". Preferisco pensarla come ad un sinomimo di "mancanza", di risorse, di energia e di scelte. Anzi proprio la mancanza di scelte mi sembra la sua manifestazione più lampante. Per me la crisi è quando manca qualche cosa che dovrebbe esserci e prima c'era, sulla cui presenza confidavo. Quindi mancanza di libertà, di autonomia, allora maggior controllo, polizia e insicurezza. Oppure stanchezza, apatia, quindi resa. La crisi è una motocicletta con le rotelle, è un contratto matrimoniale, è il cibo precotto, è lo sport in televisione, è guardare l'amore degli altri, è lavare una macchina senza la benzina nel serbatoio. Quando le risorse sono poche c'è anche poco da scelgliere, occorre occulatezza, parsimonia oppure, al contrario, grande dispendio come stimolo. Sarebbe bello se bastasse immettere nelle crisi un valore immateriale per uscirne. Allora la nostra salvezza sarebbero i creativi e gli entusiasti. Un detto orientale ricorda che non si può allontare il buio ma si può accendere una candela. In pratica invita a reagire, partendo dal piccolo. Ma la crisi nella mia mente rimane come uno stretto vicolo con alti muri ai lati in cui si avanza con difficoltà, ma chi ha sperante può cercare intanto  spiragli e nuove vie. Se fosse così facile non ci sarebbe problema né per i miei piccoli buii né per quelli della società. O forse entrambi non abbiamo un obiettivo a cui rivolgere il desiderio. Con quale alchimia potremo trasformare la rabbia in sogno?


foto: crisis - 22 novembre 2012

domenica 18 novembre 2012

Luoghi


Nella geografia della memoria i ricordi hanno bisogno di luoghi, di posti, di collocazioni nello spazio altrimenti perdono peso e vagano nella fantasia e nell’amnesia. Nella “Bestia della giungla” il protagonista si ricorda di un pomeriggio a Roma, nei Fori Imperiali, una tenda bianca e un temporale. La sua amica, che per anni ha ripensato a quei giorni, lo corregge ricordandogli che si trattava di Napoli e la tenda era la copertura di una barca. Il luogo per eccellenza è la casa, in questo giorno di piccolo raffreddore, l’unica cosa che desiderassi era tornare a casa mia, benché sia tale solo da pochi mesi. E’ come se un pezzo di me fosse legato a questo luogo e lo abbia sacrificato a “casa”. Il crescere assieme lega, oltre ai corpi e alle anime,  anche gli oggetti. Un luogo per eccellenza è il cimitero. Ho uno scarso culto dei morti, non sento il grande bisogno di visitare le tombe e i miei cari li porto nel ricordo. Preferisco visitare i posti in cui hanno vissuto, sperare di intrecciarne una scia, di qualche tipo, a qualunque branca della fisica o della teologia appartenga. Con la visita di San Bernardino alle Ossa l’idea del luogo finale è apparsa con poca creanza. I proprio resti vengono conservati da altri,e usati, magari esposti. Quelle centinaia di teschi vuoti erano persone, non ossa, erano volti, sorrisi, amori, idee, scelte. Erano tanti di me. Questa unicità che è la nostra vita, si è ripetuta nella sua statistica individualità migliaia di volte nella storia e gli atomi di cui siamo fatti sono gli stessi delle comete e dei dinosauri, o degli ingegneri di Ridley Scott. Ho comprato un altro libro sugli alberi, che per la maggior parte,  nascono, vivono e muoiono nello stesso luogo.



Foto: San Bernardino alle Ossa, Milano - 17 Novembre 2012

giovedì 1 novembre 2012

Con cucina


Il ristorante è pronto, i tavoli sono apparecchiati, il cameriere è sull’attenti vicino all’ingresso pronto ad aprire la porta, il cuoco è in cucina, ha già preparato le basi, le pentole scalpitano di vapore e si tiene occupato decorando piatti vuoti. Nessun cliente entra nel ristorante per tutto giorno. La polvere inizia ad appoggiarsi sulle posate e sulle tovaglie bianche, il cameriere legge e rilegge il giornale appoggiato alla casa. Il cuoco ha buttato nell’immondizia ciò che aveva già preparato. Passano i giorni e nessun cliente compare. Il cameriere e il cuoco iniziano a passare le giornate seduti al tavolo centrale con i gomiti appoggiati stancamente. La cucina è vuota e silenziosa. Le uniformi sono trascurate e i tavoli sanno di abbandono. Nessuno entra dalla porta con le tendine. Se qualcuno entrasse ora si spaventerebbe dalla trascuratezza del posto, il menù sarebbe vecchio, le pietanze banali e forse il servizio scontroso. Nessuno sa perché i clienti ignorino questo posto, forse la posizione, forse la zona, forse il nome sbagliato, o forse solo sfortuna. Nessuno lo sa, chi lo sa non lo dice e il ristorante precipita nelle ragnatele degli angoli dimenticati della città.

Foto: Amleto per cena.

venerdì 19 ottobre 2012

Apologia della minestra


Avrei voluto prendere il telefono e dire una cosa del tipo “ciao, nulla, è che mi sento triste come una minestra...” Molte persone associano la minestra a qualche cosa di triste, di invernale, di malaticcio. Io non trovo che sia un piatto triste ma mi adeguo, si sa che le metafore sono fatte per gli altri. Io la minestra la trovo simpatica: è leggera, saporita se la sai fare e colorata. Inoltre se cucinata lentamente ti riempie la casa del profumo di verdura e di attesa, il giorno dopo è meno piacevole però al momento mi ricorda qualche cosa di caldo. Sabato scorso non ero affatto triste, mi sono cucinato una minestra e ho guardato un film di Godard. Immagino che a qualcuno ciò possa apparire tragico, ma ero veramente sereno. Da qualche giorno lo sono meno, anzi non lo sono affatto: il freddo si sente. Ho un ragù congelato e penso che lo userò per vestire gli spaghetti di un bel rosso profumato, abbinato a quello nel bicchiere, sperando di trovare un pensiero rosso da seguire nella serata. Ma come dice Ferdinando Bruni quando interpreta Rothko “rosso? rosso come?”


foto: Minestra